SCUOLA SCIENTIFICA TESLIANA DI NATUROPATIA OLISTICA

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Il Testamento biologico

 

Anno 2009_09 Maggio

Il 9 Maggio, a Prato, presso la sala Consiliare del Comune, organizzato, con il “patrocinio” della LIDU nazionale, dalla sede provinciale del sodalizio, si è tenuto un importante convegno-conferenza, centrato, anche a motivo della “tristissima” vicenda della giovane Englaro, sul tema, all’ordine del giorno dell’opinione pubblica, dei partiti, delle istituzioni e della stampa, relativo all’ipotesi di introduzione, nell’ordinamento italiano, del “Testamento Biologico”.
L’evento dibattimentale, infatti, intitolato “Il Testamento biologico. Aspetti etici, medici e giuridici: opinioni a confronto”, cui ha partecipato un vasto pubblico, assieme ad avvocati, medici, opinionisti, giornalisti e rappresentanti del mondo culturale, ha visto la presenza, sia del sindaco della città, Marco Romagnoli, sia del presidente nazionale dell’Associazione, Alfredo Arpaia.
Arpaia, dopo aver portato un saluto augurale di buon lavoro ai convenuti ed agli organizzatori, ha passato il microfono al presidente della LIDU provinciale di Prato, Marco Tofani, perché introducesse le relazioni e “gestisse” il dibattito.


Tra le relazioni, tutte assai interessanti, quali quella di Don Helmut Szeliga, docente di Teologia e Morale alla “Scuola Diocesana”, del dottor Francesco Bellomo, direttore sanitario della U.S.L. 14 di Prato, e dell’Assessore comunale alla Sanità, Beatrice Magnalfi, di particolare interesse e spessore intellettuale e giuridico è apparsa quella dell’Avvocato Maurizio De Tilla, Presidente dell’OUA, ovvero dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana, nonché responsabile della “Commissione Giustizia” della LIDU.
Relazione che, di seguito, ci pregiamo di riportare in ampia sintesi.
“Vi sono diritti e doveri del malato, tra cui quello di lottare con tutte le proprie forze contro la malattia.
Vi sono, poi, diritti e doveri della scienza medica, tra cui quello di aiutare una persona a vivere il più a lungo possibile...
Ma l’ultima parola spetta, comunque, al malato”.
Sono le parole di Giandomenico Pisapia, uno dei più grandi giuristi che ha avuto il nostro Paese, che Umberto Veronesi ricorda nella introduzione al libro “La parola al paziente. Consenso informato e rifiuto delle cure”.
Il principio generale è l’autodeterminazione del paziente ad accettare l’intervento del medico.
Solo in casi eccezionali, rimessi alla valutazione ponderata del legislatore, è possibile “curare” una persona anche contro la sua volontà, evidentemente perché il diritto alla salute del singolo s’intreccia con la salute collettiva (v. art. 32, comma secondo, della Costituzione).
Fatta salva, quindi, la “speciale” ipotesi derogatoria, nessuno può essere sottoposto coercitivamente ad un determinato trattamento sanitario; ed il consenso deve essere libero, cosciente, attuale, revocabile e consapevole.

Ragion per cui, il paziente deve acconsentire, non solo ad interventi di routine, ma anche ad interventi rischiosi, che potrebbero comportare significative ripercussioni sulle proprie condizioni psico-fisiche.

Di qui, la promozione del “modello condiviso”, ovvero l’assoluta necessità che la “relazione” tra medico e paziente sia ispirata, quasi si tratti di una specie di alleanza terapeutica, all’informazione, alla comunicazione, all’ascolto ed al silenzio.
Da questo, discende che l’attuazione del consenso informato dipende principalmente dall’onestà intellettuale e professionale del medico, fatta d’informazione corretta, chiara, completa ed adeguata al livello di comprensione del malato.
Dai valori costitutivi del consenso informato deriva che l’autodeterminazione del paziente in merito alla propria libertà psico-fisica può esprimersi anche nel dissenso all’intervento sanitario e, quindi, nel rifiuto di cure.
Non può, quindi, escludersi che il paziente decida di non sottoporsi al prescritto trattamento sanitario.
Il che accade spesso, a fronte della scarsa possibilità di guarigione ed alla luce dei gravi effetti collaterali che finirebbero per compromettere, in modo significativo, la qualità della sua esistenza.
È questa una libera ed insindacabile scelta.
La dottrina e la giurisprudenza hanno sancito che il rifiuto di cure costituisce un vero e proprio diritto soggettivo del paziente, perfetto e costituzionalmente garantito (vedansi, al riguardo, anche solo gli articoli 13 e 32 della Costituzione).
Articoli che offrono una precisa risposta alla questione, nel senso di ritenere che il diritto all’autodeterminazione, rispetto ai trattamenti sanitari, è un diritto inviolabile dell’uomo.
All’individuo, non può, quindi, che essere riconosciuto, come diritto fondamentale, quello di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico e di terapia; così come quello di rifiutare la terapia o di decidere consapevolmente di interrompere la terapia.
E questo, in tutte le fasi della vita, ivi compresa quella terminale, in cui, specie quando lo “spegnimento” è ineluttabile, deve ritenersi riconosciuta all’individuo la libertà di scelta del come e del quando concludere il ciclo vitale.

Come ha puntualmente sostenuto, in una sua recente opera, Federico Gustavo Pizzetti, la dignità umana deve essere ritenuta la base stessa, la sostanza stessa, di tutti i diritti fondamentali.

Non può essere, quindi, che gli straordinari progressi che la tecnologia medica guadagna ogni giorno, attraverso il mantenimento in una condizione di vita del tutto artificiale, prevalgano sulla dignità della persona. Da ciò, per forza di cose, discende il fatto di rimettere l’apprezzamento della “dignità” stessa dell’uomo alla potenza della scienza e della tecnica, in una prospettiva squisitamente “tecnologica” e non più strutturalmente “antropologica”.
La questione va estesa anche al convincimento che la ratio di questo diritto è la medesima che giustifica il principio del consenso informato e la sussistenza di un diritto naturale al testamento biologico.
Per venire all’argomento che è esploso drammaticamente con l’intervento giudiziario nel caso di Eluana Englaro, si deve ricordare il concetto essenziale che è stato sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 27082/2007, che ha preceduto la decisione dei giudici milanesi.
Che, cioè, il diritto di autodeterminazione del malato, anche se incapace, si racchiude nella valorizzazione, sul piano giuridico, della preminenza della persona umana e della sua potestà di autodeterminazione terapeutica, che hanno un diretto fondamento normativo proprio in norme di rango costituzionale (artt. 2, 3, 13 e 32 cost.).
Il valore uomo (nel suo essere “dato” e nel suo essere “presupposto”, come “valore etico in sé”) non può essere disgiunto dagli stessi diritti che l’ordinamento costituzionale repubblicano gli riconosce.
Tale correlazione si esprime anche rispetto al diritto alla salute ed alla vita.
Secondo la Suprema Corte, la prosecuzione della vita non può essere imposta a nessun malato, mediante trattamenti artificiali, quando il malato stesso liberamente decida di rifiutarli, od abbia deciso in base a direttiva anticipata.
Con un’altra decisione (16 ottobre 2007 n. 21748) la Corte di Cassazione ha pure affermato che uno Stato come il nostro, alla luce del principio di autodeterminazione, non può che rispettare la scelta di chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza, e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno.
In proposito, il prof. Pizzetti ha puntualmente richiamato il principio del pluralismo democratico, osservando che, mentre un malato, conformemente alla propria personalissima visione della vita, può manifestare volontà permanente al prosieguo delle terapie cui è sottoposto, prediligendo un tipo di vita clinicamente sostenuta mediante potenti macchine “simbionti”, un altro malato, invece, può ritenere che sia assolutamente contrario alla propria concezione della dignità dell’esistenza proseguire in una vita che è tale solo “artificialmente”.
Un ordinamento fondato sul principio pluralista, che riconosce, secondo la prospettiva della “piramide rovesciata”, il primato alla persona, non può imporre una od un’altra particolare visione del mondo all’individuo, soprattutto quando si tratta della sua dimensione profondamente esistenziale. E siccome il pericolo che si può correre è che la “vita umana”, grazie ai progressi della scienza e della tecnica, possa connotarsi di tratti fortemente artificiali, diventa principio di diritto irrinunciabile il fatto di potersi sottrarre al potere della scienza e della tecnica biomediche. Indicative di quanto appena detto sono le parole del filosofo Giovanni Reale “Il Corriere della Sera”, sabato 7 febbraio 2009): “Nel caso di Eluana, vedo un abuso da parte di una società tecnologica totalizzante, così gonfia di sé e dei suoi successi da volersi sostituire alla natura”.
Dal consenso informato e dal rifiuto delle cure, deriva, come evoluzione civile e normativa, il “Testamento Biologico”.
Attraverso il testamento biologico e la compilazione di direttive anticipate, un individuo può liberamente indicare i trattamenti sanitari che vuole ricevere e quelli cui intende rinunciare quando non sarà più in grado di prendere decisioni autonomamente.
Può, inoltre, indicare un suo fiduciario che, in tali situazioni, agisca come “decisore”sostitutivo.

Solo nel caso in cui dovesse mancare ogni informazione in merito, si dovrebbe scegliere in base a quel che appare il suo migliore interesse nella situazione data.

Con il testamento biologico, la scelta di fine vita viene intimamente collegata alle dichiarazioni anticipate di trattamento. Denominazione questa che, unitamente ad altre analoghe (living will, direttive anticipate, testamento di vita), fa riferimento “ad un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto, nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato”.
Da questa definizione si può, subito, ricavare che è errato ritenere che le dichiarazioni anticipate implichino di per sé l’ammissibilità dell’Eutanasia. Le dichiarazioni e l’Eutanasia rientrano nella vicenda di fine vita, ma sono due problemi diversi, logicamente indipendenti e vanno trattati separatamente. Le dichiarazioni anticipate servono a dare indicazioni in merito alla volontà del paziente, utilizzabili quando questi non può far valere di persona le proprie scelte. In questo senso, esse sono uno strumento dell’autonomia dei malati e non hanno alcuna possibile implicazione eutanasica.
Va chiarito che le dichiarazioni anticipate possono contenere anche indicazioni di una prosecuzione delle cure al di là delle cautele suggerite al medico affinché si eviti l’accanimento terapeutico.
Ancor più drasticamente si è sostenuto che quando si parla di dichiarazioni di volontà anticipate non ci si riferisce all’Eutanasia, perché non si richiede né il comportamento attivo di terzi per ottenere il risultato di mettere fine alla vita, né si richiede la passiva partecipazione di terzi, in quanto oggetto di tali dichiarazioni è il rifiuto del trattamento medico.
Anche se cristallizzato nel tempo, tale rifiuto vale ad esercitare il diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione, che può consistere, nel caso di adulti, nell’esercizio negativo del diritto.
A prescindere dalle problematiche sull’Eutanasia, le dichiarazioni anticipate sono certamente un efficace strumento che rafforza l’autonomia individuale ed il consenso informato nelle scelte mediche o terapeutiche, tanto più che, grazie alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (artt. 1 e 3) ed alla Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina (artt. 5, 6 e 9), questi principi acquisiscono nuovo e maggior rilievo, non soltanto coinvolgendo i doveri professionali del medico e la legittimazione dell’atto medico, ma dando sostanza al diritto del cittadino all’integrità della persona ed al rispetto delle sue decisioni.
Vale la pena ricordare l’intervento del Comitato nazionale per la Bioetica (18 Dicembre 2003) con il quale si è affermato che le “dichiarazioni anticipate di trattamento” si iscrivono in un positivo processo di adeguamento della nostra concezione dell’atto medico, ai principi di autonomia decisionale del paziente.
Le dichiarazioni possono essere intese sia come un’estensione della cultura che ha introdotto, nel rapporto medico-paziente, il modello del consenso informato, sia come spinta per agevolare il rapporto personale tra il medico ed il paziente, proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere.
Uno dei principali problemi è che, nell’attualità, con il progresso della tecnologia medica ci si impone di prendere decisioni che non eravamo obbligati a prendere qualche tempo fa.
E, talvolta, le decisioni andrebbero prese quando non si è, per incapacità, in grado di prenderle.
Su questa preliminare osservazione vi è da segnalare che, secondo un noto bioetico (David Lamb, “L’etica alle frontiere della vita”, Il Mulino 1998), la sospensione o la mancata somministrazione di terapie di prolungamento della vita sono un normale esercizio dell’attività medica e non equivalgono all’Eutanasia od al suicidio medico- assistito.
In quest’ambito viene, tra l’altro, in evidenza il concetto di futilità medica.
C’è un ampio consenso, inoltre, sul fatto che non vi sia alcun imperativo di ordine etico che imponga di sottoporre un paziente a ripetuti tentativi di rianimazione, ad un futile regime di alimentazione introvenosa, a dialisi, al mantenimento farmaco-dipendente della pressione sanguigna, a profilassi antibiotica, od al controllo elettrocardiografico del battito cardiaco, al mero fine di tenere in vita il malato terminale per un altro paio di giorni od una settimana. La cosa più importante da fare, in questi casi, è adoperarsi per dare sollievo al malato.
Se l’Eutanasia, infatti, è incompatibile con i principi del buon esercizio della pratica medica, infliggere una terapia per il mantenimento in vita, con il solo risultato di aumentare la sofferenza del paziente è altrettanto deplorevole.
Se l’argomento più convincente a favore dell’Eutanasia è alleviare la persona da inutili sofferenze, gli oppositori dell’Eutanasia sbagliano nella difesa, ad oltranza, del mantenimento in vita di un paziente, anche a costo di infliggergli terribili sofferenze.
Esistono motivi convincenti perché l’atto col quale si nega l’applicazione di una terapia di mantenimento in vita e l’atto col quale si causa il decesso del paziente vengano distinti.
È importante avere la consapevolezza che la discussione intorno al tipo di terapia che si nega o si applica appartiene ad una categoria morale ben diversa dagli argomenti relativi all’atto di “consentire” o “causare” la morte (David Lamb, op. cit., 52).
Nell’ambito delle tesi che favoriscono l’introduzione negli ordinamenti giuridici di norme che disciplinano il “Testamento biologico” è agevole affermare che ogni persona ha diritto alla non interferenza sulle scelte che riguardano gli aspetti più intimi della sua vita.
Le scelte relative alla salute sono fondamentali perché concernono il valore centrale del benessere del paziente.
La salute ed il prolungamento della vita non sono infatti dei valori in sé, ma solo in quanto facilitano il perseguimento del proprio piano di vita: perciò, “in molti casi, la decisione di quale, tra i trattamenti alternativi, compresa la scelta di nessun trattamento, promuova meglio il benessere di un paziente, non può essere determinata oggettivamente, se scissa dalle preferenze e dai valori del paziente stesso”.
“In prossimità della morte sono particolarmente forti, da un lato, il pericolo di andare incontro a sofferenze incoercibili, dall’altro, quello di perdere il controllo su di sé e di vedere perciò compromessa la propria dignità; dunque, l’affermazione di un “diritto di morire” equivale a riconoscere ad individui autonomi, in possesso delle proprie facoltà, la libertà di decidere che la loro qualità di vita è così fortemente compromessa da rendere privo di senso continuare a vivere”, così come scrive Massimo Reichlin, ne “L’etica e la buona morte”.
Va segnalato che in alcuni Stati americani si fa ricorso a una procura speciale, attraverso la quale il rappresentato nomina un procuratore affinché agisca, per suo conto, in un qualsiasi momento successivo alla perdita della propria capacità di autodeterminazione.
Sotto taluni aspetti, l’istituto del fiduciario, per così dire, “della salute” è un meccanismo che mette il paziente in grado di indicare al medico chi dovrebbe essere il proprio delegato o sostituto.
Si ritiene che l’efficacia giuridica di tali strumenti sia superiore a quella del testamento di vita.
L’autorità del procuratore può, infatti, prevalere sulle obiezioni sollevate dai familiari.
Accomunate in un’unica categoria, il “testamento di vita” e la “procura per la salute” rientrano nella categoria delle “direttive anticipate”.
Nel Regno Unito, l’opinione dei giuristi è leggermente diversa da quella prevalente negli Stati Uniti.
La Law Commission of England interpreta le “direttive anticipate” come decisioni anticipatorie, distinguendole dal testamento di vita che, invece, definisce come “la direttiva anticipata concernente il rifiuto di procedure per il mantenimento in vita nel caso eventuale di uno stadio terminale della malattia”.
Ma, tanto negli Stati Uniti, quanto nel Regno Unito, la legittimazione morale delle direttive anticipate consiste nel promuovere l’autonomia individuale, e, sebbene il documento possa talvolta indicare la scelta di ricevere o meno specifiche forme di terapia, le direttive anticipate, secondo il senso comune, sono associate all’opportunità di rifiutare l’ultima terapia di fronte alla percezione del timore di un accanimento terapeutico, come, del resto, si evince da molte argomentazioni volte a promuoverle.
La questione del Testamento biologico va affrontata anche sotto l’aspetto religioso.
In proposito, vorrei richiamare una magistrale espressione del Cardinale Dionigi Tettamanzi (riportata da Eugenio Lecaldano nel volume “Bioetica – Le scelte morali”, Laterza 1999, p. 67) che, facendo appello al “morire con dignità umana e cristiana”, sottolinea come “l’uomo sia “uomo” anche di fronte alla morte e nella morte stessa: questa, da “evento inevitabile”, è chiamata a diventare, per l’uomo, un “fatto personale”, un fatto da assumere e da vivere (vivere la morte!) da uomo, ossia coscientemente e liberamente, dunque responsabilmente. In questo senso, morire con “dignità umana” significa affrontare la morte con serenità e coraggio” (Tettamanzi, 1999, p. 461).
La delicatezza della problematica spiega la lenta e tuttora persistente latitanza del legislatore il quale ha, talvolta, preferito tacere ed assistere passivo agli eventi, nella speranza che, magari, ad un certo punto, sia la realtà stessa a suggerire la soluzione migliore o peggiore.
A questo punto, una risposta normativa appare indispensabile.
Una risposta che regoli la questione, ma non intervenga per escludere un diritto già esistente.
Una legge è, dunque, necessaria per restituire la giusta serenità alla professione sanitaria, per garantire concretamente il rispetto della dignità del paziente e della sua autodeterminazione; infine, per offrire un criterio-guida sicuro ai giudici che, a differenza del legislatore, devono invece “decidere” la sorte delle persone che si trovano coinvolte, a vario titolo, in vicende talvolta drammatiche.
Vi è, inoltre, da regolare la forte differenza tra rifiuto delle cure e accanimento terapeutico, in quanto c’è il rischio che il medico possa, in perfetta scienza e coscienza, considerare accanimento terapeutico ciò che invece il paziente reputerebbe terapia proporzionata.
Il rifiuto delle cure rimanda ad una impedimento di carattere soggettivo; il divieto di accanimento terapeutico è, invece, di carattere oggettivo.
Vanno, quindi, considerate erronee quelle posizioni che reputano legittimo il rifiuto di cure salvavita solo se sussistano gli estremi dell’accanimento terapeutico.
L’accanimento terapeutico (si veda, in proposito, il codice di Deontologia medica) va considerato come figura residuale, applicabile solo quando il paziente non ha dato istruzioni anticipate.
A questo punto, si può evidenziare che la problematica del “rifiuto di cure” è complessa, in quanto investe non solo la Biochimica, ma anche il mondo dei “valori”, ovverosia le personali convinzioni etiche, religiose, filosofiche che ogni uomo ha della “vita” e della “morte”.
Per questo motivo, tra gli stessi giudici, tra gli stessi medici, tra gli stessi cattolici, tra gli stessi laici, le “posizioni” sono estremamente diversificate.
In realtà, la scelta dell’individuo è laica.
Sotto tale riguardo il concetto di laicità non deve essere guardato con sospetto, quasi fosse espressione di indifferenza laica.
In realtà, si tratta di un principio fondamentale che svolge un’essenziale funzione garantista: attribuire valore giuridico soltanto a taluni valori essenziali, in quanto patrimonio comune dell’intera collettività, significa che tutti gli altri valori sono rimessi alla libera scelta individuale e, per quanto possano essere tra loro eterogenei e minoritari, sempre che non contrastanti con i primi, devono essere rispettati dall’ordinamento giuridico.
La laicità, allora, lungi dall’essere sintomatica di una carenza di valori, è, invece, espressione di grande civiltà e di enorme rispetto della personalità individuale.
Solo assicurando che nessuna “ideologia” estranea al quadro dei valori costituzionali si imponga giuridicamente, dominando su tutte le altre, quasi fosse espressione di una “verità universale”, si rende effettivo il diritto di ciascun uomo ad avere un patrimonio culturale, ideologico, etico, religioso, filosofico, al quale improntare il proprio stile di vita ed ogni singola azione, senza il timore d’interferenze ed imposizioni dall’esterno.
In nome della laicità del diritto, bisogna, quindi, evitare posizioni drastiche, rigide, che non lascino vie di uscita, come sarebbe quella di ritenere giusto non staccare la spina a dispetto della disperazione del caso concreto, del sistema di valori desumibile dalla vita del malato, del tempo trascorso e delle scarsissime e nulle chance di guarigione.
Poter scegliere, per quanto difficile e drammatico sia, è già un passo in avanti nella ricerca della possibile soluzione.
Quel che è, in ogni caso, certo è che nessuna norma può sancire l’esistenza di un dovere di vivere.
Per altro, il diritto di rifiutare le terapie, anche se salvifiche, non significa disporre della propria vita.
Vuol dire, invece, disporre del “bene salute” e scegliere di accettare il naturale decorso della malattia e della propria esistenza.
Sarebbe costituzionalmente illegittima una legge che disconosca il diritto di rifiutare le cure salvavita.
Il rispetto della volontà del malato è un problema morale e deontologico del medico su cui la legge non può interferire.
Se lo farà, i medici faranno obiezione di coscienza – oppure, saranno costretti ad infrangerle.
Vorrei concludere con il pensiero espresso da Papa Wojtyla, nel suo scritto “Il senso della vita”: «Voi mi domandate se la Chiesa è l’unica a dettare delle leggi sulla vita, sulla morte, sull’amore. Altri seguono la propria saggezza, la loro ragione, a volte i loro istinti per determinare la loro condotta in questi gravi campi.
Ovunque si pronuncino civiltà, religioni, istanze giuridiche o politiche secondo una retta coscienza, rispettando la dignità umana, noi ne gioiamo».

Tratto dal documento della Lega Italiana
dei Diritti dell’Uomo Onlus:
Testimonianza
“Report 2008-2009”
Iniziative, documenti, prese di posizioni, deliberati,
lettere, ecc. in materia di diritti, nel biennio
curato da Gian Piero Calchetti e Sara Lorenzelli
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