SCUOLA SCIENTIFICA TESLIANA DI NATUROPATIA OLISTICA

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La libertà degli Antichi e dei Moderni al tempo dei social network:

Benjamin Constant e J.J. Rousseau oggi

2. Constant

2.3.2 La critica al secondo principio di Rousseau: l’estensione dell’autorità sociale

 

Come sopra descritto, il punto di partenza comune ai due autori è il principio della volontà generale pur declinato nei modi sopra evidenziati a conferma dei due retroterra teorici profondamente diversi dei due pensatori. La contrapposizione vera e propria si manifesta nel secondo principio rousseauiano, quello relativo all’estensione dell’autorità sociale.

 

Nel “Contrat social” Rousseau sostiene che “Trovare una forma di associazione che difenda e protegga, mediante tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero come prima”[1]. La forma di questa associazione deve essere individuata nel contratto sociale. Le clausole di questo contratto devono offrire la soluzione per far coincidere libertà individuale e obbedienza all’autorità politica. Per il Ginevrino “queste clausole, bene intese, si riducono tutte a una sola, cioè all’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità”[2]. Nella sostanza “Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale e noi, costituiti in corpo, riceviamo ogni membro quale parte individuale del tutto”[3].

 

La vera e propria critica di Constant a tale principio è sviluppata nel terzo capitolo del I libro dei Principes de politique, che si apre con la citazione del secondo assioma del Ginevrino.

 

Constant afferma che dalle clausole del Contratto sociale “Ne consegue che la volontà generale deve esercitare sull’esistenza individuale un’autorità illimitata”[4]. Nell’intento di confutare il secondo principio di Rousseau, Constant parte quindi proprio da un’argomentazione dello stesso autore del Contratto sociale, il quale, cercando di rassicurare i propri interlocutori sulle conseguenze dell’alienazione totale di ogni individuo alla comunità, sostiene che “cedendo ognuno interamente i propri diritti, la condizione è uguale per tutti e nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri; che ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno”[5]. Inoltre, tutti i diritti che gli individui cedono alla comunità in quanto “privati”, li riprendono in quanto “cittadini”, ovvero in quanto membri perfettamente eguali di quel corpo collettivo che è il sovrano. Poiché quest’ultimo coincide con il corpo sociale, esso non può nuocere né all’insieme dei suoi membri, né a qualcuno in particolare.

 

Constant, disapprovando Rousseau, afferma all’opposto che “tale principio costituisce la giustificazione di ogni dispotismo”, giacchè il sovrano, in base ad esso, verrà a disporre di un potere illimitato: nessun diritto individuale potrà essere infatti invocato per limitare la sfera d’azione del sovrano”[6].

 

Secondo la critica constantiana, Rousseau non considera che il sovrano, un essere astratto, può offrire tutte le garanzie fintanto che esso si componga di tutti gli individui, senza eccezione alcuna. Ma nell’istante in cui il sovrano, ovvero il corpo sociale, dovrà esercitare praticamente il suo potere, non potendolo esercitare in prima persona, sarà costretto a delegarlo e quindi ogni garanzia cadrà. Pertanto, l’obiezione che egli muove è di natura squisitamente “pratica”. “ Poiché l’azione compiuta a nome di tutti è necessariamente a disposizione di uno solo o di pochi, ne consegue che dandosi a tutti non è affatto vero che non ci si dà a nessuno. Al contrario ci si dà a coloro che agiscono nel nome di tutti. Da questo deriva che cedendo interamente i propri diritti non si entra in una condizione uguale per tutti, poiché pochi approfittano in maniera esclusiva del sacrificio di tutti gli altri”[7]. Dunque, cedendo i propri diritti, non ci si troverà in una situazione di parità, poiché pochi, detenendo il potere, si troveranno al di fuori della condizione comune.

 

L’errore commesso da Rousseau che ha fatto sì che egli non vedesse le evidenti conseguenze della sua dottrina, è quello di aver operato una distinzione tra i diritti della società e i diritti del governo.

 

Per Rousseau il termine “governo”, nell’accezione molto estesa, sta a significare “la riunione, non solo di tutti i poteri costituiti, ma di tutti i modi costituzionali che hanno gli individui per concorrere, esprimendo le loro volontà particolari, alla formazione della volontà generale”[8]. In questo senso, ogni cittadino che elegge i propri deputati è considerato come partecipante al governo del proprio paese. In base a questi principi la divisione tra società, depositaria del potere, e governo, mero esecutore di esso, è puramente illusoria e pericolosa nella pratica. La società infatti, non potendo esercitare direttamente il potere, i diritti che riceve dai suoi membri, è costretta a delegarlo istituendo quello che comunemente si chiama “governo” (ma inteso in un’accezione più ristretta rispetto a quella rousseauiana, ovvero come potere costituito). Qualsiasi distinzione fra i diritti della società e quelli del governo è illusoria astrazione. “La società, da un lato, deterrebbe legittimamente un’autorità più estesa di quella che delega, e perciò la parte delegata, non potendo essere esercitata, sarebbe come inesistente: un diritto che non può essere né esercitato né delegato è infatti un diritto che non esiste. Dall’altro lato, riconoscendo simili diritti si avrebbe l’inconveniente inevitabile che i depositari della parte delegata arriverebbero a farsi delegare anche il resto”[9]. In conclusione, l’atto di delega di tali diritti dalla società al governo è necessario affinché essi possano essere esercitati, altrimenti sarebbero diritti inesistenti; è impossibile riconoscere certi diritti alla società escludendo che le istituzioni governative ne possano disporre.

 

Constant per meglio chiarire si serve di un esempio: s’immagini che ad una società venga riconosciuto il diritto di espulsione contro una minoranza, poiché nessuno concede questo terribile diritto al governo, quest’ultimo attribuisce la responsabilità di tutti gli ostacoli e di tutti i pericoli a questa minoranza facendo appello alla nazione. Alcuni uomini dipendenti si trasformano in strumenti della nazione per imporle il silenzio e proclamano la sua onnipotenza per minacciarla. In questo modo il governo si impadronisce del potere reale e terribile che prima era considerato come il diritto astratto della società intera.

 

In astratto la società possiede un diritto che non delega al governo, poiché potrebbe servirsene per trasformarsi in autorità tirannica, ed è quello di cambiare l’organizzazione del governo stesso. Non delegando questo diritto non può neanche esercitarlo.

 

Rousseau osserva che il popolo per un aspetto è sovrano per un altro è suddito, ma nella pratica i due aspetti si confondono. “È facile per gli uomini al potere opprimere il popolo come suddito, per forzarlo a manifestare, come sovrano, la volontà che gli impongono. Per fare ciò è sufficiente terrorizzare individualmente i membri della società e rendere in seguito un ipocrita omaggio alla società nel suo complesso”[10]. Pertanto, alla società si possono riconoscere solo i diritti che possono essere esercitati dal governo senza divenire pericolosi.

 

In definitiva, poiché la sovranità è una cosa astratta, mentre l’esercizio di essa è concreto ed è “affidato a esseri che a differenza del sovrano, non hanno una natura astratta, è necessario prendere delle precauzioni contro il potere sovrano, a causa della natura di coloro che lo esercitano”[11].

 

Si rende necessario, secondo Constant, la necessità di limitare l’autorità sociale, poiché se ciò non avviene, si ha una duplice conseguenza: “da un lato, l’esistenza individuale si trova sottomessa senza riserve alla volontà generale, mentre, dall’altro, la volontà generale si trova rappresentata senza appello dalla volontà dei governanti”[12]. Costoro, mediante l’estensione illimitata dell’autorità sociale, legittimano ciò che nessun tiranno oserebbe fare a suo nome.

 

Il principio sostenuto da Rousseau, in pratica, fa sì che coloro che compongono il corpo sociale subiscano un doppio processo di privazione della libertà in un doppio ambito: a livello individuale, ciascuna volontà particolare è destinata ad essere cancellata in favore della volontà generale, in favore della società, poiché gli individui che, “dice Rousseau, hanno ceduto tutti i loro diritti al corpo sociale, non possono avere un’altra volontà se non la volontà generale”[13].

 

A livello “comunitario” invece, la società viene privata della sua libertà a favore dei governanti, i quali “dispongono di un potere tanto più temibile in quanto dicono di essere soltanto i docili strumenti di questa pretesa volontà e, allo stesso tempo, possiedono i mezzi di forza o di persuasione necessari per far sì che essa si manifesti nel senso che conviene a loro”[14] .

 

Entrambe queste espropriazioni di libertà non sono solo frutto di equivoci, ma appaiono addirittura subdole: infatti nel primo caso gli individui sono convinti che obbedendo alla volontà generale “essi obbediscano soltanto a se stessi e sono tanto più liberi quanto più vi obbediscono implicitamente”[15], nel secondo caso, invece, sono i governanti che dipingendosi come esecutori e strumenti della volontà generale perseguono ciò che conviene a loro.

 

Durante la Rivoluzione, le conseguenze della dottrina di Rousseau si sono sviluppate in tutta la loro spaventosa latitudine. Infatti, il “Terrore” non è stato una strumentalizzazione delle tesi rousseauiane da parte dei giacobini, ma una coerente ed inevitabile conseguenza di esse. Lo stesso Rousseau, secondo Constant, si era reso conto delle atroci conseguenze a cui avrebbe potuto portare l’applicazione del suo secondo principio, “terrorizzato dall’immensità del potere sociale che aveva appena creato”[16]. Per non aver capito che l’autorità sociale deve essere limitata, e trovandosi per questo in un evidente imbarazzo, il Ginevrino ha smontato «con una mano quello che aveva costruito con l’altra», dichiarando cioè che “la sovranità non può essere alienata, né delegata, né rappresentata –il che equivale a dichiarare, in termini meno chiari, che non può essere esercitata”[17]. In altre parole, non sapendo a chi affidare un “potere così mostruoso” aveva optato per renderne impossibile l’esercizio.

 

Constant, dopo aver ribadito di accogliere pienamente il primo principio rousseauiano per cui la sovranità deve emanare dalla volontà generale, dichiara che questa non è una condizione sufficiente a garantirne la legittimità. Ne deriva che mentre il primo principio in commento è la base di ogni libertà l’altro, ovvero l’estensione della stessa, è la giustificazione di ogni dispotismo. È sicuramente vero che in una società, i cui membri godono di eguali diritti, nessun individuo, preso singolarmente, ha la facoltà di fare leggi obbligatorie per tutti gli altri; così come è sicuramente falso che la società, nel suo complesso, possiede tale facoltà senza alcuna restrizione. La totalità dei cittadini è sovrana, nel senso che nessuno può esercitare il potere senza che gli sia stato delegato dalla società, “ma da ciò non segue che la totalità dei cittadini, o coloro che da questa sono investiti dell’esercizio della sovranità, possa disporre in maniera sovrana dell’esistenza degli individui”[18].

 

Secondo Constant, esiste una parte dell’esistenza umana che deve rimanere sottratta alla giurisdizione della sovranità, è di diritto sottratta ad ogni competenza sociale. Vi è una porzione della vita di ciascun individuo che resta indipendente dall’esercizio del potere. Pertanto, la sovranità esiste in maniera limitata e relativa; la sua giurisdizione finisce dove inizia l’indipendenza dell’esistenza individuale. In Constant tale indipendenza si configura come una sfera di diritti inalienabili ed imprescrittibili. Se l’autorità oltrepassa questo limite “si rende colpevole di tirannia non meno del despota che ha per titolo soltanto la spada sterminatrice”[19].

 

Quando l’autorità sociale estende la propria competenza a materie che sono al di fuori del suo ambito, essa diventa illegittima. In questo senso, ha poca importanza da dove tale sovranità dichiari di derivare, cioè non importa se essa esprima la volontà di un individuo o di una nazione intera: potrebbe essere la nazione intera, meno il cittadino che opprime, e non sarebbe meno illegittima; se oltrepassa i propri confini diventa usurpatrice e illegittima. La novità fondamentale della teoria constantiana sulla sovranità consiste proprio nella consapevolezza che, a livello teorico, non si debba più agire sulla derivazione dell’autorità sociale, ma piuttosto ci si debba concentrare sulla definizione e sulla delimitazione degli ambiti di competenza dell’autorità.

 

È necessario, quindi, distinguere tra materie sulle quali la legge può pronunciarsi e materie sulle quali non può farlo, delimitare a priori il potere. L’organizzazione del governo è una questione secondaria se l’autorità sociale non è limitata. Se non si procede a questo tipo di delimitazione, risulta assolutamente inutile suddividere formalmente il potere, iscrivendolo in un sistema di pesi e contrappesi, secondo la teoria proposta da Montesquieu.

 

Constant, infatti, ritiene che “la reciproca sorveglianza dei diversi poteri dello Stato è utile soltanto per impedire a uno di questi di ingrandirsi a spese degli altri”[20]. Se a queste autorità è permesso intervenire in tutti gli ambiti la somma dei diversi poteri però sarà illimitata. Constant sostiene che si debba procedere ad una “limitazione astratta” dell’autorità sociale. Certo, ammette, “la limitazione astratta dell’autorità sociale rimarrebbe senza dubbio una ricerca sterile, se in seguito – nella concreta organizzazione del governo – non le si dessero le garanzie di cui ha bisogno”[21]. Constant per stabilire dove porre i limiti dell’autorità sociale propone due strade complementari: definisce le funzioni statuali stabilendo i cosiddetti “diritti sociali” e tutto ciò che resta indipendente dall’autorità sociale opponendo al governo, dunque, come confine invalicabile, i “diritti individuali”.

 

Lo Stato nasce per garantire la sicurezza interna ed esterna degli individui, “l’autorità sociale deve essere incaricata soprattutto di reprimere i disordini e di respingere le invasioni”[22], le due cose indispensabili perché una società esista e sia felice. Questi sono i compiti che lo Stato deve assolutamente garantire, perché non può esistere una società in cui i delitti rimangano impuniti o che non riesca ad opporsi ad un’aggressione nemica.

 

Lo Stato non può prescindere da ciò, ma può fermarsi a questi soli compiti. In questo caso, dunque, si tratta di limiti artificiali, cioè che scaturiscono dalle finalità e dalle funzioni per cui lo Stato si costituisce. Per far ciò, deve avere il diritto di emanare leggi penali contro i crimini e di formare un esercito, compiti che presuppongono che gli sia conferito anche il diritto “di imporre agli individui il sacrificio di una parte della loro proprietà privata per sostenere le spese richieste.”[23].

 

In sintesi, Constant ha tracciato la sua concezione di “Stato minimo” delineando le funzioni che deve adempiere: reprimere i crimini, difendere i confini dello Stato dalle aggressioni esterne e imporre una certa quota di tasse.

 

Tuttavia, il potere dell’autorità sociale viene delimitato detraendo da essa i diritti individuali: alla società compete quel poco che non rientra nella sfera dei singoli. All’interno della sfera individuale, Constant distingue tra i diritti individuali, inalienabili e quelli che è utile e opportuno garantire. I primi consistono nella libertà d’azione, ovvero nella facoltà di fare tutto ciò che non nuoce agli altri; nella libertà religiosa, cioè nel diritto di non essere costretti ad alcuna professione di fede di cui non si sia convinti (fosse anche quella della maggioranza); nel diritto di manifestare il proprio pensiero con tutti i mezzi di espressione, a condizione che ciò non rechi danno ad alcun individuo e non provochi alcuna azione colpevole; infine, nella certezza di non essere trattati arbitrariamente, come se si fossero oltrepassati i limiti dei diritti individuali, vale a dire nella garanzia di non poter essere arrestati, detenuti o giudicati se non secondo le leggi e nel rispetto delle forme.

 

Tra i diritti che è utile e opportuno garantire, Constant annovera le libertà economiche, poste su un piano subordinato rispetto ai diritti inalienabili appena descritti. I diritti politici, infine, non sono concepiti da Constant come una vera e propria libertà.

 

Questi sono il mezzo di espressione della sovranità e sono collegati alla proprietà privata in quanto consentono agli individui di partecipare alla formazione della volontà generale.

 

Renata  Dott.ssa COVIELLO

 

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI NICCOLO’ CUSANO - TELEMATICA ROMA

 FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE

 CORSO DI LAUREA IN SCIENZE POLITICHE E DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI

 

TESI DI LAUREA:

 “La libertà degli Antichi e dei Moderni al tempo dei social network: Benjamin Constant e J.J. Rousseau oggi”

 ANNO ACCADEMICO 2017-2018

 [1] J. J. Rousseau , Il contratto sociale , i classici del pensiero libero. Corriere della Sera, Milano,  2010, pag. 18

 [2] Ibidem, pag. 19.

 [3] Ibidem, pag. 19.

 [4] DE LUCA S,  Constant B, Principi di politica , Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pag. 12.

 [5] Ibidem, pag. 20.

 [6] S. DE LUCA, B. Constant teorico della modernità, in “Bollettino telematico di filosofia politica al link: http://bfp.sp.unipi.it/constbib/index.html

 [7] DE LUCA  S, Constant B, Principi di politica , Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pag. 20.

 [8] Ibidem, pag. 22.

 [9] Ibidem, pag. 22.

 [10] Ibidem, pag. 23.

 [11] Ibidem, pag. 24.

 [12] Ibidem, pag. 25.

 [13] Ibidem.

 [14] Ibidem.

 [15] Ibidem.

 [16] Ibidem, pag. 32.

 [17] Ibidem.

 [18] Ibidem, pag. 37.

 [19] Ibidem.

 [20] Ibidem, pag. 44.

 [21] Ibidem.

 [22] Ibidem, pag. 49.

 [23] Ibidem.

 

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