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Categoria: SCIENZA E FILOSOFIA

La libertà degli Antichi e dei Moderni al tempo dei social network: Benjamin Constant e J.J. Rousseau oggi

 

 

2.4.1 Le differenze tra gli Antichi e i Moderni individuate da Constant

 

Constant individua cinque differenze, la prima riguarda le dimensioni delle Repubbliche antiche, “tutte erano racchiuse entro stretti confini. La più popolosa, la più potente, la più importante tra loro non raggiungeva in estensione il più piccolo degli Stati moderni”[1]. L’esiguità del territorio faceva sì che “ogni cittadino avesse, politicamente, una grande importanza.”[2].

 

L’esercizio dei diritti politici, la partecipazione ai processi e alle riunioni sulla pubblica piazza costituivano un autentico godimento ed erano un’occupazione costante per tutti. “Ciò consisteva nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, varie parti della sovranità tutta intera, nel deliberare, sulla piazza pubblica, della guerra e della pace, nel concludere trattati d’alleanza con gli stranieri, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi, nell’esaminare i conti…”[3]. In questo modo, il ruolo di ciascun cittadino “nell’esercizio della sovranità non era – come ai giorni nostri – una supposizione astratta”, poiché la volontà del popolo “aveva un’influenza reale e non era suscettibile di contraffazioni menzognere e di rappresentazioni abusive”[4].

 

Anche qualora l’autorità sociale fosse stata oppressiva, ogni cittadino avrebbe potuto consolarsi sapendo che ne deteneva direttamente una parte. Oggi, invece, la massa di cittadini è chiamata a esercitare la sovranità solo “in modo illusorio”. Il popolo, che sia schiavo o libero, in ogni caso non governa mai. Per questo motivo, la felicità dei cittadini negli Stati moderni non risiede più “nel godimento del potere, ma nella libertà individuale”[5].

 

Nel delineare questa prima argomentazione, Constant ha una concezione prettamente realistica della democrazia moderna, ritenendo che in una società di grandi dimensioni il principio della sovranità popolare è largamente illusorio, perché ad esercitare effettivamente il potere sono sempre delle minoranze. “Con l’estensione di un paese diminuisce in proporzione la quota d’importanza politica che spetta a ciascun individuo”[6].

 

Questa prima differenza riguarda il concetto di partecipazione politica; gli stati antichi erano poco estesi e quindi per i cittadini era possibile partecipare direttamente alla politica; tale partecipazione era non solo un piacere per il cittadino, ma era uno degli scopi della sua vita. I moderni hanno moltiplicato le occasioni e i mezzi per essere appagati e quindi tale felicità deriva dai godimenti privati e non più dalla partecipazione politica.

 

Possiamo aggiungere che il potere sociale, nell’antichità, era un potere assoluto ma poteva essere sopportato perché, effettivamente, il singolo cittadino partecipava ed era parte del potere. Per il moderno sopportare un’autorità tanto invasiva sarebbe impossibile, tanto è misera e illusoria la sua partecipazione all’autorità.

 

La seconda differenza viene individuata nell’indole bellicosa dei popoli antichi rispetto al diffuso pacifismo dei Moderni. Le popolazioni antiche, “pressoché prive di relazioni reciproche”, risiedevano in territori limitati e semplicemente per necessità, se non altro di difesa, erano costretti a “garantirsi la sicurezza, l’indipendenza, l’esistenza stessa” con la guerra. Nei tempi moderni invece “tutto è calcolato per la pace”[7].

 

Nell’epoca antica ogni popolo costituiva una famiglia isolata, nemica fin dalla nascita delle altre; nell’era moderna invece esiste una massa di uomini, omogenea per natura, civilizzata che tende uniformemente verso la pace per cui la guerra è di peso. “La guerra in alcuni casi è ancora la passione dei governanti, ma non è più la passione dei governati. I governanti stessi sono costretti a offrire delle giustificazioni per intraprenderla”[8],senza invocare motivazioni tipicamente antiche come la ricerca della gloria o l’aspirazione a nuove conquiste.

 

Tutto nell’antichità si rapportava alla guerra invece oggi tutto è calcolato per la pace, insomma, “la guerra non esiste più come scopo, ma soltanto come mezzo” [9]. Le nazioni vogliono la quiete, il benessere; e come fonte del benessere l’operosità”, la guerra diventa un mezzo sempre meno efficace per soddisfare le aspettative delle nazioni, le opportunità che la guerra offre non costituiscono più né per gli individui, né per le nazioni, benefici pari ai risultati del lavoro pacifico e degli scambi regolari”[10]. Una guerra vittoriosa fra gli antichi aumentava la ricchezza pubblica e privata in schiavi, tributi, spartizioni di terre; fra i moderni, costa inevitabilmente più di quanto non renda.

 

La terza differenza riguarda l’esistenza del commercio. Nessuna delle Repubbliche antiche prese a modello era dedita al commercio, le cause che ostacolavano i progressi del commercio presso gli antiche erano molteplici; invece presso i Moderni il commercio rappresenta una prerogativa significativa. Se gli Antichi si situano nell’età della guerra, i Moderni si situano in quella del commercio.

 

In fondo, dice Constant, la guerra e il commercio hanno la stessa natura, entrambi “sono mezzi diversi per giungere al medesimo scopo, che è e sarà sempre lo scopo dell’uomo: assicurarsi il possesso di ciò che gli sembra desiderabile”[11] . Solo che l’una è l’evoluzione razionale dell’altra: la guerra è impulso, il commercio è il calcolo razionale.

 

La guerra, dal punto di vista storico, ha dovuto precedere il commercio; l’esperienza dimostra all’uomo che la guerra lo espone a varie resistenze e a sconfitte, risulta sempre dannosa e potenzialmente distruttiva. La guerra è sempre più dispendiosa rispetto a quello che può dare per cui egli ricorre al mezzo più sicuro e più “dolce” per raggiungere lo stesso scopo; infatti il commercio non è altro che il desiderio di ottenere in modo amichevole ciò che non speriamo più di conquistare con la violenza.

 

L’intuizione della negatività della guerra e il ricorso al commercio per l’acquisizione di beni sono la dimostrazione della capacità umana di perfezionarsi nel corso dei secoli. “Infine, il commercio ispira agli uomini un vivo amore per l’indipendenza individuale. Il commercio provvede ai loro bisogni, soddisfa i loro desideri senza l’intervento dell’autorità”[12].

 

Queste caratteristiche socio-economiche delle culture antica e moderna implicano alcune conseguenze di natura politica che influiscono sulla determinazione del concetto di libertà e su quello di autorità sociale. La guerra, infatti, “esige l’esistenza di una forza pubblica più estesa e di natura diversa, rispetto a quella necessaria in tempo di pace”[13]. La guerra richiede una forza pubblica attiva, nel periodo di pace è sufficiente che la forza pubblica sia di garanzia. La guerra per avere successo necessita di un’azione comune, mentre in tempo di pace “ognuno ha bisogno soltanto del suo lavoro, della sua intraprendenza, delle sue risorse individuali”[14]. Il popolo gode dei successi, dei frutti della guerra collettivamente, invece i frutti della pace vengono goduti individualmente e ciascuno ne gode in modo tanto più completo quanto più è indipendente.

 

La schiavitù, peculiarità della società antica non soltanto dal punto di vista politico, ma anche dal punto di vista economico e morale, rappresenta la quarta differenza evidenziata da Constant. In questo caso l’autore dei Principes utilizza un tono piuttosto “soggettivo”, abbandonando quello descrittivo e “oggettivo» delle precedenti argomentazioni, per caratterizzare in modo estremamente negativo i popoli antichi. “La schiavitù praticata da tutti i popoli antichi, conferiva ai loro costumi qualcosa di severo e di crudele”; l’esistenza di schiavi, cioè di uomini che non godono di nessuno dei diritti dell’umanità, “trasforma del tutto il carattere di un popolo”[15] rendendolo disumano.

 

Nel mondo antico erano numerosissimi gli esempi di spietatezza nei confronti degli schiavi. L’assenza di schiavitù, presso i Moderni, ha dunque reso i costumi più umani. I popoli antichi vivevano del lavoro degli schiavi e quindi potevano dedicare il loro tempo alla politica. I moderni hanno sicuramente costumi più umani e devono necessariamente lavorare, sottraendo tempo all’attività politica. Nell’antichità quanto più tempo e forze l’uomo dedicava all’esercizio dei diritti politici, tanto più si credeva libero.

 

Quinta ed ultima differenza è di tipo psicologico e morale, ed è riscontrabile nella diversa sensibilità che contraddistingue gli antichi e i moderni. Se i primi infatti “erano nel pieno della giovinezza della vita morale; i moderni sono nella maturità, forse nella vecchiaia”[16]. Osservando la poesia, quella degli Antichi è semplice e diretta; vediamo che i popoli del passato erano caratterizzati da grandi vivacità, entusiasmi e immaginazione: essi erano nella giovinezza della vita morale.

 

I poeti moderni invece si portano dietro una certa «riserva mentale» che nasce dall’esperienza e da una perdita dell’entusiasmo. Nei loro componimenti la riflessione ha sostituito l’entusiasmo. I moderni sono più riflessivi e nelle loro opere si osservano continuamente: essi sono nella maturità morale. Gli uomini contemporanei sono più malinconici, si commuovono più facilmente e sono più attenti ai rapporti privati. Per questo l’uomo moderno è sempre in dubbio, è diviso tra fede e ragione, tra istinto e razionalità. Tale scissione è il frutto inevitabile della civilizzazione.

 

Le stesse considerazioni valgono per la filosofia, “entusiasta” quella antica anche quando “astratta”, “arida” quella moderna anche quando cerca di essere “entusiasta”: “vi è della poesia nella filosofia degli antichi e della filosofia nella poesia dei moderni”[17].

 

In definitiva, gli Antichi erano meno consumati dalla civilizzazione, i Moderni, “affaticati dall’esperienza, hanno una sensibilità più malinconica e, per ciò stesso, più delicata, una maggiore capacità di commuoversi”[18]. Questo cambiamento antropologico è dovuto al progresso della civilizzazione. Esso ha addolcito il carattere dell’individuo, ha reso le relazioni private più sicure, rendendole una componente importante della vita umana, in pratica ha attenuato la parte di istintività e di immediatezza dell’uomo accentuandone la sensibilità, la riflessività e la predisposizione a concentrarsi sulla parte privata dell’esistenza. Da tutto ciò deriva che l’uomo moderno non può credere ciecamente in istituzioni che si compongono “di tradizioni, precetti, usi e pratiche misteriose” e “leggi positive”[19].

 

Constant sottolinea a più riprese che la civiltà umana ha fatto il suo ingresso nell’età del dubbio e del disincanto, nell’età della ragione. L’uomo antico è, per Constant, profondamente diverso da quello moderno e ciò è dovuto al cammino della storia che non solo cambia le istituzioni, ma disvela altresì la razionalità umana. Secondo il pensatore francese la storia è guidata dalle idee e avanza di pari passo con il disvelamento di tali idee o principi.

 

Questo rende impossibile rifondare un popolo moderno attraverso le istituzioni, le quali hanno forza solamente quando diventano un’abitudine, non al momento della loro instaurazione. Non è pensabile dunque istituire nuovi valori attraverso le istituzioni, cioè non si può “rimodellare” un popolo attraverso imposizioni dall’alto: ciò può avvenire soltanto gradualmente nel tempo.

 

Da queste riflessioni Constant rileva un ridimensionamento del ruolo della politica nella società moderna: essa deve limitarsi a garantire la libera espressione del carattere individuale caratterizzato da una forte inquietudine e sensibilità, dall’essere in preda al dubbio. Tale condizione non può essere superata mediante la politica o la filosofia, essendo frutto di quella civilizzazione ricca di risultati positivi sotto altri aspetti, va accettato così com’è.

 

Renata  Dott.ssa COVIELLO

 

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI NICCOLO’ CUSANO - TELEMATICA ROMA

FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE POLITICHE E DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI

TESI DI LAUREA:

“La libertà degli Antichi e dei Moderni al tempo dei social network: Benjamin Constant e J.J. Rousseau oggi”

ANNO ACCADEMICO 2017-2018

 

 

[1] Giovanni PAOLETTI, Benjamin Constant, la libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, 2008      

[2] DE LUCA S, Constant B, Principi di politica, Rubbettini, Soveria Mannelli 2007, pag. 469.

[3] Giovanni PAOLETTI, Benjamin Constant, la libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, 2008,pag.6

[4] Giovanni PAOLETTI, Benjamin Constant, la libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, 2008, pag.469     

[5] Stefano DE LUCA Constant B, Principi di politica, Rubbettini, Soveria Mannelli 2007, pag. 470.

[6] Giovanni PAOLETTI, Benjamin Constant, la libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, 2008,pag.12

[7] Stefano DE LUCA,  Constant B, Principi di politica, Rubbettini, Soveria Mannelli 2007, pag. 471.

[8] Ibidem, pag. 472

[9] Ibidem, pag. 473

[10] Giovanni PAOLETTI, Benjamin Constant, la libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, 2008,pag.12

[11] Stefano DE LUCA , Constant B, Principi di politica, Rubbettini, Soveria Mannelli 2007, pag. 475.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem, pag. 473

[14] Ibidem, pag. 474

[15] Ibidem, pag. 480

[16] Ibidem, pag. 482

[17] Ibidem.

[18] Ibidem, pag. 483

[19] Ibidem.

 

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