SCUOLA SCIENTIFICA TESLIANA DI NATUROPATIA OLISTICA

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Posizione del padre di famiglia

Nella trattazione della patria potestas si è constatato come le facoltà e l’immagine del pater che conduceva e rappresentava in modo assoluto tutta la famiglia, fosse e si rappresentasse molte volte in modo crudele impressionante, spaventoso e disumano  concretizzandosi in qualsiasi forma di punizione corporale, dalla decisione di fidanzamento e matrimonio dei figli, alla decisione estrema del diritto di vita o di morte.
Questa posizione del padre di famiglia, con un’autorità illimitata verso tutti ed indistintamente i suoi sottoposti,  deriva dall’ importanza fondamentale che la famiglia assume nella struttura della società, anzi non è sicuramente presuntuoso affermare che ne costituiva la cellula primordiale e originaria, con radici profonde nella storia anche della patria potestas: la famiglia è, dalle sue origini naturali, un istituto giuridico, ma ancor prima un fatto sociale dove hanno origine tutti i poteri che vengono riconosciuti sì in capo al pater familias, ma che sono l’origine di tutti quei diritti e doveri che si sviluppano e, con la storia, si evolvono per una giusta regolamentazione della vita sociale.

Come si è affermato più volte, la famiglia rimane un fatto sociale più che giuridico, nonostante la funzione che ha nella vita politica ed economica: ha motivato il diritto in tutta la sua evoluzione storica, il quale da un lato gli modella l’istituzione e la comprensione degli istituti giuridici ad essa riferiti, e dall’altro lato permette  di ricostruire la concezione della famiglia, la sua evoluzione nel corso delle diverse epoche storiche e nelle diverse società.
Alle origini la patria potestas non cessa mai fino a quando  il pater familias è in vita: i figli restano alieni iuris, ossia filii familias sino alla morte del pater familias che, come si detto, non corrisponde necessariamente al proprio padre, bensì al più anziano ascendente diretto maschile.
Solo chi non ha ascendenti è sui iuris e di conseguenza soggetto di diritto a pieno titolo, con le piene facoltà di agire e di porre in essere validi negozi giuridici.

Il potere del pater familias inizia alla nascita del figlio: egli può tollere suscipere liberos natos, ossia compiere il gesto rituale del sollevamento che sancisce il riconoscimento della propria prole; o decidere di esporre il neonato, anche se  questa decisione comporti già dalle origini alcune sanzioni pecuniarie, ridotte al minimo nel caso delle femmine ed esenti nel caso di parto mostruoso.
Il pater familias ha lo ius vitae ac necis sui propri filii  ma, anche se mai abolito almeno sino al IV secolo d.C., fu fortemente contrastato dal senso comune civile e, di conseguenza, nella pratica poco applicato;  può decidere ancora di vendere i figli come schiavi, trattenendo la proprietà dei loro beni, potere che fu in parte attenuato  con l’introduzione del peculium.

Gli effetti della patria potestas erano spesso resi inefficaci dai naturali cicli della vita che all’epoca non era superiore ai 30 anni:  nell’ultimo periodo della Repubblica solo un quinto dei maschi in età di matrimonio (fra i 25 e i 35 anni) si trovavano ancora sottoposti all’autorità di un pater familias, poiché nella maggior parte dei casi, il pater familias era probabilmente già morto.
Il diritto di morte rimane sostanzialmente limitato al diritto di expositio dei neonati, che non coincide comunque con un infanticidio, in quanto spesso parte dei i maschi erano avviati alla schiavitù, mentre le femmine alla prostituzione.
La patria potestas ebbe un ruolo molto importante nelle decisioni e negli atti posti in essere per la stipula di un regolare matrimonio, soprattutto per dare formalità anche ai nuovi rapporti e poteri economici che si costituivano.

Nel periodo augusteo la famiglia romana è protagonista di un nuovo inquadramento sociale:  le necessità imposte da una struttura sociale sempre più ampia e complessa rimodellano le basi  della famiglia, così i maschi con età compresa fra i 25 e i 60 anni e tutte le femmine fra i 20 e i 50 anni sono obbligati a contrarre matrimonio; i caelibes vengono puniti con forti limitazioni delle capacità patrimoniali; anche gli orbi, cioè  coloro che si sposano ma non riescono ad avere figli, sono soggetti alle limitazioni patrimoniali.
Più drastica divenne la legislazione sugli adulteria, ossia qualsiasi relazione extraconiugale da parte della donna, indipendentemente dal suo status di coniugata, vergine o vedova: la sanzione dell’adulterium, in origine perpetrata in ambito familiare, passò nelle mani dello Stato,  il quale reputò l’adulterio un vero e proprio crimen, un reato pubblico perseguibile non solo da parte dei congiunti, ma da parte di qualsiasi cittadino che volesse presentarne denuncia. La pena prevista fu la relegatio in insulam, ossia il confino, sia per la donna che per l’amante. Non venne comunque abolito lo ius occidendi,  da parte del pater familias, in caso di flagranza di reato.

Nell’età imperiale si assiste ad un forte cambiamento nello sviluppo degli istituti familiari: si radica sempre di più una nuova etica della famiglia, probabilmente imputabile all’influenza del cristianesimo ed alla sua insistenza sulla parità fra uomo e donna: è evidente che la morale matura alcuni elementi fondamentali di questa nuova visione del matrimonio e della vita familiare.
Il cristianesimo influisce su due fronti della moralità: da un lato promuovendo l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, a prescindere dalla permanenza dell’affectio maritalis; dall’altro articolando le tradizionali norme di trasmissione patrimoniale all’interno della famiglia. Pertanto già a partire dal IV secolo d.C., la Chiesa influisce fortemente sulla legislazione relativa all’ereditarietà del patrimonio,  con l’intento sostanziale di garantire la possibilità di eredità a vantaggio della Chiesa stessa.
Questi cambiamenti comportano anche e soprattutto, con il passare del tempo, la disgregazione della famiglia tradizionale romana, fenomeno dovuto alla progressiva crisi dell’aristocrazia all’interno di un Impero che si uniformava sempre più alla burocratizzazione sociale.

Da ultimo, e non certo perché meno importante, si è trattato delle persone in causa mancipii: il ius vendendi del pater familias, la sua facoltà di esimersi dalla responsabilità derivante dall’azione intentata contro di lui per il delitto del filius consegnandolo all’offeso (noxae datio) , la facoltà di consegnarlo al creditore come garanzia di un debito posto in essere o di consegnare anche sé stesso (nexum) ed infine le vendite fittizie attraverso le quali si compie l’emancipazione classica, fanno sì che una persona libera possa cadere, sottoposta presso un pater familias che non è il proprio, in una posizione perenne o transitoria di asservimento, posizione chiamata causa mancipi.
La caratteristica che rende la causa mancipii più gravosa della patria potestas è, come si è notato, che se la sottoposizione alle dipendenze del pater familias non è per un periodo transitorio non vi è nessuna causa naturale che lo estingua, al contrario i figli del sottomesso nascono nella stessa condizione e il potere si trasferisce per una durata indefinita agli eredi del detentore della potestas.
L’autorità del pater familias, anche se attenuata dai principi  del Cristianesimo, riprese vigore nell’Alto Medioevo, per influenza del diritto germanico: la caduta dell’Impero occidentale, la restaurazione bizantina ed i disordini sociali e politici, condussero inevitabilmente ad un rafforzamento dei vincoli familiari e della potestà paterna.

Al modello gentilizio romano si ispirò ancora la famiglia del periodo rinascimentale, ma alla preoccupazione di mantenere salda l’unità familiare si sostituì gradualmente quella di salvaguardare l’unità sì familiare ma dal punto di vista del suo patrimonio, affermandosi sempre di più i privilegi dei primogeniti maschi.
Certamente il modello della patria potestas, così come è stato esaminato in questa trattazione e come era caratterizzato nelle sue varie sfaccettature nell’antica Roma, non coincide con quello che oggi è la potestà sui figli, caratterizzata in primis dalla condivisione di scelte di entrambi i genitori sin dalla nascita di un figlio.
Oggi ai principi di libertà ed autonomia della famiglia si affianca infatti il principio del libero consenso che regola i rapporti familiari, dai quali deriva  il principio del rispetto della personalità di ogni singolo membro, mentre ai coniugi viene riconosciuta in modo paritario l’uguaglianza morale nei confronti dei propri figli, che hanno il diritto di essere educati, istruiti e mantenuti senza discriminazioni legati al sesso e all’ordine di nascita. Ai figli deve essere assicurata la massima assistenza in  tutti i sensi e la prima formazione sociale, che avviene nella e per la famiglia ma anche per la società dove ogni singolo individuo vive  e convive con i propri simili.
E’ nella famiglia che sin da piccoli si comincia a delineare la personalità di ognuno,  che la famiglia stessa deve rispettare ed aiutare a maturare in un clima di libertà e di scelte autonome dei valori ritenuti più giusti.
Le norme costituzionali garantiscono questi diritti e doveri in capo ai genitori  e della “patria potestas” che, con la riforma del diritto di famiglia avvenuta nel 1975, è stata  sostituita dalla “potestà dei genitori”, a riconoscimento della parità delle due figure che danno origine a ciascuna famiglia, cellula del tessuto sociale in cui viviamo.

 

  • Salvatore Terranova – Noto
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Bibliografia

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Le forze lavorative nei rapporti di dipendenza

La famiglia dal punto economico si procurava le forze necessarie creando su determinate persone poteri derivanti da rapporti di dipendenza e soggezione, di varie specie e di diversa durata, con un unico denominatore: la sottoposizione al potere del pater familias.
Ogni dipendenza costituiva una fattispecie particolare, come si  è evidenziato precedentemente, caratterizzata dall’intensità e dalla durata che ogni rapporto poneva in essere.
Sui figli venduti, pur sopravvivendo la patria potestas del pater originario, l’acquirente  aveva il potere del mancipium, che non si realizzava come la potestas dominica sugli schiavi: situazione che si verificava anche per i noxae dediti, che rimanevano in mancipio pur non diventando schiavi.

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Origini della servitù e sottomissione al pater familias

Gaio affermò che “vi sono tre tipi di utensili : quelli che non si muovono e non parlano; quelli che si muovono e non parlano (animali), e quelli che si muovono e parlano (schiavi)”: affermazione dalla quale si evince la mera e scarna considerazione dello schiavo, considerato res , “utensile” da lavoro, idoneo solo ad apportare la propria attività per l’incremento dell’economia a favore del dominus.
Il rapporto intercorrente tra la schiavitù e gli altri stati di soggezione appena trattati è inversamente proporzionale : nel momento in cui si espande la schiavitù gli altri stati di soggezione diventano sempre più deboli fino a scomparire del tutto alcune fattispecie.
La schiavitù nasce in primis a causa della guerra, quale bottino vivente che i vincitori portano a casa per sfruttarlo a livello economico: vennero sottomesse così intere popolazioni sconfitte in guerra ed il commercio degli schiavi divenne una fiorente attività economica, poiché gli schiavi costituivano la manodopera indispensabile per garantire il funzionamento dell’economia e l’incremento della stessa.

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Le manumissiones

La cessazione  della sottomissione e quindi l’acquisto della libertà avveniva per mezzo di un atto giuridico con il quale il padrone proclamava o faceva proclamare libero il suo servo: questo tipo di negozio subisce evoluzioni che danno origine a diversi tipi di atti denominati manumissiones.
Nel periodo più antico vi sono tre specie di manumissiones iustae ac legitimae: testamento, censu e vindicta.
Il testamento, ovviamente del dominus, consiste in una disposizione che prevede la libertà del servo alla sua morte con la formula “servus meus libere esto”, disposizione alcune volte arricchita anche dall’istituzione di erede del servo stesso con la formula “servus meus liber et heres esto”*, ma non posta in essere con intenzione benevola nei confronti del proprio servo, infatti sembra che si nominasse quale erede il servo nel caso in cui l’eredità fosse negativa o fosse stata macchiata da eventi come ad esempio il fallimento. L’esecuzione testamentaria poteva aver luogo anche prima della morte del padrone, comportando la successiva iscrizione nelle liste del censo.

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I rapporti di sottomissione del filius e degli estranei

La sottomissione del filius alla potestà del pater e i suoi vari aspetti, largamente evidenziati nei precedenti capitoli, da origine ad un rapporto giuridico naturale ma non molto differente dal rapporto che lo stesso pater può instaurare con un  estraneo.
Il pater familias può disporre, come si è visto, sul filius con una serie di facoltà, a volte giustificate dalla condizione e dalla convenienza economica,  a volte adottate quale punizione fino all’estrema decisione di morte nei confronti del figlio stesso.

Dal punto di vista patrimoniale il filius è una res che può essere ceduta, o per meglio dire venduta per trarne vantaggio per sé e per il gruppo familiare.

Unica differenza tra un filius ed un estraneo (schiavo) alla famiglia, peraltro già precedentemente accennata, è la durata dello status di sottomesso: temporanea nel primo caso e perenne per lo schiavo, che addirittura fa parte dell’asse ereditaria che di diritto viene acquisita dal filius al momento della morte del pater.

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