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Categoria: FRANCESCO JOVINE

verdedelmonte

Malfuta o della fondazione di un villaggio

Rocca Malfuta scivolava da secoli a valle verso il Biferno.Le acque del fiume che, uscite dalle gole di Trapura, erano in quel punto rapide e spumose rodevano il lembo estremo dell’immensa frana glabra e cinerea: un lenzuolo sudicio buttato sul verde del monte.Le case erano bigie meschine divise da strade lerce dove grufolavano i maiali e sulle quali s’aprivano le brevi finestre che non vedevano mai il sole.Il sole compariva tardi a Malfuta quando i contadini erano lontani nei campi: spuntava per i radi vecchi taciturni raccolti nella breve piazza minacciata da un campaniletto spaccato da una crepa esistente da tempo immemorabile.

Ma tutte le case sembravano fichi d’autunno striate dagli spacchi, con tegoli grommosi disordinati, pendenti dai tetti e che a una scossa minima sarebbero precipitati per scoprire lo scheletro delle travi di quercia, nere di fumo secolare.

Il villaggio pareva fosse stato preso all’improvviso, chi sa quando, da un tremito violento che, prima di compiere l’estrema rovina e far macerie, si fosse arrestato per miracolo.Chi v’arrivava la prima volta, abbracciato in un attimo quell’incerto equilibrio di travi e di mura nel silenzio altissimo della canicola, pensava che un tuono improvviso scoppiato dalla nuvola nera pendente su Trapura avrebbe fracassato tutto.

Ma i vecchi sulla piazza guardavano senza parole tranquillamente le case e la chiesa:

-Non cade signore. L’ha fermata san Rocco-.

San Rocco a monte del villaggio aveva una nicchia di mattoni rossi situata all’inizio della frana; col dito col quale indica l’ulcera del ginocchio indicava anche la frana sottostante.Con quel dito l’aveva fermata.Ogni anno il 16 d’Agosto su per i sentieri rassodati dalla calura, da Malfuta salivano i contadini la notte, e tutti avevano una fiaccola e cantavano:San Rocco Benedetto. Dalla frana ci hai protetto. Il crinale del monte s’incoronava di spari: veniva Giarrato da Morrone e mandava verso il cielo una pioggia di stelle azzurre e rosse e lingue di fuoco gialle.Tutti gli altri santi portati a spalla facevano visita a San Rocco: era quello che salvaguardava tutti.

Agosto: la terra diventava ferrigna: le acque prosciugate fino all’ultima stilla erano andate in cielo a far le nubi: il sole aveva dato alla frana l’apparenza di una crosta tenacissima. Su per i sentieri i passi dei viandanti risonavano come sulle tombe. San Rocco poteva dormire: nelle notti senza luna il piccolo tabernacolo era invisibile, e buia era anche Malfuta; ai fianchi del monte dirimpetto e ai fianchi della frana c’erano i fuochi delle stoppie. Ma il fuoco ardeva d’inverno davanti a San Rocco; così il romito del piccolo santuario indicava la sua veglia nelle notti brumose, quando l’acqua impastava la creta sotto le case e faceva le mura pronte a piegarsi silenziosamente nella mota.D’inverno, quando le ultime pecore erano passate nel tratturo che seguiva il crinale dei colli mandando nella buia valle di Malfuta il suono dei campani, non s’udiva più nulla.

Il cielo coperto pendeva sulla valle e dal Biferno salivano nebbie radenti e gelide.S’udiva il fiume scrosciate tra i sassi dell’alveo sempre più cupo.Correva nelle case di Malfuta in quei giorni l’antico motto: «il tempo s’è messo ad acqua, noi ci mettiamo a vino». E bevevano tutti, vecchi e giovani intorno ai focolari attingendo il vino dagli orci di creta; la notte dormivano quieti tra le raffiche della pioggia e del vento.Malfuta scivolava a valle da tre secoli.

L’ultimo feudatario della terra, Giacomo di Gambatesa, stanco delle contese eterne con i contadini che ogni tanto gli ammazzavano un messo o un notaio, aveva ceduto il feudo alla Casa Bindi-Scauli di Napoli, banchieri arricchiti nel commercio col levante e con l’usura.Un anno dopo Michele Scauli calò a Malfuta accompagnato da venti uomini d’arme, un notaio, tre scribi e due compassatori e offrì tutte le terre in riscatto. Da vecchie pentole di coccio rosso e dai paglioni muffiti vennero fuori le doppie e i ducati lucenti messi insieme a dramma a dramma in duecento anni di segreta lesina e furono deposti sul tavolo con esitante gesto di diffidenza.

A uno a uno ritiravano la carte che li liberava dal canone e se la cacciavano in seno tra lo scapolare e la lama aguzza di Campobasso che toccavano sempre quando giuravano fede ed ubbidienza.Michele Scauli, riscosso il canone, lasciò Malfuta di notte; raggiunse il crinale del monte di primo mattino e si volse un’ultima volta a guardare il gruppo di case cineree che erano avvolte nella lieve caligine dell’alba.

-Anche le case hanno comprato, razza d’animali-. E rise.

-L’avranno prese per il cataletto, - insinuò il notaio Trotta dio Campodipietra. Don Michele Scauli rise ancora.

Ma quei di Malfuta, sapevano che le case avevano fatto da secoli conoscenza e come piante antiche avevano profonde radici che s’abbracciavano in un ferreo intrico nel sottosuolo e andavano a valle, ma lentamente, tutt’insieme, come se la crosta che li sorreggeva scorresse su un sotterraneo piano levigato.Ma alle case in quei giorni non badarono: pensarono invece a porre i termini alle terre comprate tracciando i solchi di confine con una lentezza cauta e avida, pronti a deviare dalla linea stabilita se il vicino non se ne accorgeva e guardandosi ferocemente negli occhi quando il bidente staccava una zolla furtiva. Poi gorgogliavano atroci bestemmie. Spesso ponevano mano ai coltelli, tra gli urli delle donne si tempestavano di colpi e arrossavano il solco appena tracciato.

Di notte quando non c’era la luna alcuni dei più avidi andavano a rimuovere i termini brancicando come ciechi sulla terra umida per cercare le pietre. Non di rado i proprietari sospettosi li attendevano nell’ombra balzando loro addosso con improvvisa ferocia.La lotta durò alcuni mesi accanita: ci furono quattro morti ed una donna ebbe il ciglio spaccato da un colpo di zappa.Ma venuta la primavera nei solchi di confine spuntarono i teneri germogli dell’albaspina e i perastri trapiantati misero le radici. Le roselline di macchia e l’albaspina fecero una traccia candida.Si piantarono croci di pietra dove il sangue era colato e per duecento anni nelle notti buie s’intese il gemito dei morti.Ma i confini erano nati.

E i Procaccito e i Mastro Dinardi e i Birisio piantarono la vite, i salici, le querce; impastarono creta e paglia e costruirono la stalla per le pecore e le aie per il lento giro dei buoi trascinanti la mola.Contro quei di Lupara che nelle notti estive, quando il guado del Biferno era facile, penetravano negli orti allineati lungo la sponda del fiume, avevano messo trappole e scavato trabocchetti; se li prendevano gli spaccavano le ossa.Ma quando c’era la luna dalle finestre delle case si vedeva tutto l’agro di Malfuta; quando compariva dalla gola del Trapura le acque e il greto scintillavano e nel mite fulgore la terra scura respirava benigna.

Così passarono gli anni: la campagna fiorì e le querce giovani e le olivelle piantate nella terra dissodata divennero grandi alberi e chiazzarono di macchie verdi la terra nera.I campi si trasmisero di padre in figlio: tutti frugavano a primavera nella zolla umida e in autunno la squarciavano con gli aratri a punta.Muri, cumuli di pietra tratti dalla terra, annerivano da secoli sotto il sole. Il suolo raccoglieva le gocce di sudore dei mietitori di Luglio e riassorbiva gli animali morti che aveva visti nascere. I loro vecchi, i malfutani li seppellivano in chiesa sotto al pavimento delle navate; avvolti nel sudario i cadaveri erano inghiottiti da una botola coperta da una lastra di pietra levigata dalle ginocchia delle donne che vi pregavano su.

Per il due Novembre sulla pietra sepolcrale s’accumulava il grano che i parenti offrivano al curato perché pregasse per i defunti.Nel 1818 quando Re Ferdinando I, applicando un decreto di Gioacchino, impose la costruzione di un cimitero il primo malfutano morto lo dovettero accompagnare quindici guardie civiche venute da Petrella che minacciavano il popolo di Malfuta con i loro fucili.Il cadavere se ne andò al suo riposo tra le baionette. Poi s’abituarono, e i morti furono sepolti nel cimitero che, fondato sulla terra solida, ebbe, dopo solo qualche anno, i primi spacchi, e si mise a scivolare anche esso con i suoi scheletri per seguire Malfuta verso la valle.

Quei di Malfuta confermarono con gli anni la loro fama di gente bizzarra e intrattabile.In quel loro covo screpolato e motoso non c’era anima viva che avesse il coraggio di andare ad abitare.Quelli che ci capitavano d’estate nelle fiere e nelle feste facevano un voto speciale a San Rocco perché la rovina prevista da secoli non avvenisse proprio in quei giorni.I malfutesi non uscivano dal loro luogo che quando andavano soldati o in galera.Si sposavano tra loro ed erano tutti parenti: quando erano sereni e quieti al lavoro o nelle lunghe veglie invernali si chiamavano tutti «zio» e «fratuccio» ma quando bevevano o dividevano le eredità mettevano sempre mano al coltello.

Il vento, la pioggia ed il sole vennero su Malfuta e la rosero e la spaccarono sempre peggio.Ma i malfutesi puntellavano i muri e zaffavano con calcina gli spacchi.

-Morirete tutti come topi-, dissero gli ingegneri del Genio civile venuta a costruire una briglia a valle.

Era d’estate e la briglia veniva bene; quadrata diritta a piombo.

I vecchi che prendevano il sole guardando i muratori al lavoro, sorridevano muti tra le grinze dei volti squamosi di sporcizia.

«“A Novembre, - pensavano, - la mota l’inghiotte».

E a Novembre la mota l’inghiottì; per Natale la fanghiglia aveva seppellite le pietre sotto la mobile coverta bigia e ci piovve su per un mese una pioggerella trita; la terra già liquida rigurgitava verso il Biferno che l’accoglieva nella sua corrente motosa.

Una notte una casa rovinò di schianto e seppellì cinque persone.Si alzarono tutti; le donne urlando; i bambini seminudi piangevano per il freddo.Nel buio rotto dai guizzi incerti delle lanterne s’intravvedevano i visi degli uomini che s’erano messi a rimuovere i sassi con una alacrità angosciosa.Tre agnelli scampati dalla stalla forse aperta, belavano con la voce tenera di quando venivano scannati. Un ragazzo ne afferrò uno e se lo stringeva al petto: l’agnello emetteva un belato lacerante.

- Lascialo, - disse una voce.

- No.

Sono tutti morti e adesso è mio.

Gli arrivò un manrovescio che lo mandò a rotolare a due passi.

Ma quello non lasciò la preda.

-Nascono diavoli, liberaci -.

E si fece il segno della Croce.

Poi si sputò nelle mani e riprese il piccone.

Al mattino l’alba rivelò i cadaveri maciullati dalle macerie: in attesa delle autorità le donne s’inginocchiarono in circolo tra la mota e piansero flettendosi sul busto e battendosi le ginocchia ritmicamente. La pioggia accompagnava brusendo in sordina. Gli uomini dietro guardavano i cadaveri, immobili con gli occhi acquosi. Vennero le autorità e i cadaveri furono rimossi.

Un signore tutto vestito di nero disse rivolto al parroco: - Ci vuole una soluzione radicale -.

E il parroco una mattina alla prima messa disse:

-Ci faranno un paese nuovo accanto alla provinciale, dirimpetto a Morrone: bisogna accettare fratelli se no moriremo tutti: non possiamo fratelli dilettissimi, rifiutare la provvidenza del Signore.

Gli uomini uscirono dalla chiesa preoccupati; ma poi uno che aveva la pipa sempre incastrata tra i denti fradici fece:

-Io non ci credo: e poi ci vanno loro dalla provinciale a fare lo scasso della Cavatella; ci vogliono due ore, ci vogliono.

Caduta una casa?

Non ne cadeva una dal tempo della signora Ava; cadono tutte?

Le case nuove che fanno con lo sputo, quelle cadono.

Un mormorio di approvazione accolse le sue parole.

Uno più giovane che aveva il cappello pieno di penne di pavone e una festuca in bocca commentò:

- Non ce ne andremo? E così moriremo tutti come fessi.

- Zitto tu, -disse il padre che era tra i presenti. –Quando stai in mezzo ai vecchi non devi parlare -.

E quello chinò la testa si ritirò borbottando e andò a far gruppo con altri giovanotti che riuniti in circolo anch’essi parlavano rado e sputavano al centro schizzando la saliva tra gli interstizi a bocca semiaperta.

Sogguardavano le ragazze che uscivano di chiesa con le mani sul grembo: serie e gravi come se volessero difendere con quel cipiglio taciturno, le mani in croce sul ventre, la loro maternità futura.

Andavano lente ma fuori del tiro degli sguardi degli uomini si mettevano a ridere frenetiche senza un perché e le anche avevano guizzi improvvisi sotto le gonne di panno nero.

Tornate a casa, le strade si empivano del frullo degli stacci che le mani scure facevano girare sulle tavole delle cucine nere.

Allora s’era ai primi di febbraio e le siepi si erano vestite.

Qualche pesco sfogliava piccoli petali sulle acque gonfie dalle nevi disciolte.

Sotto il nuovo sole della primavera nella luce nitidissima del meriggio quieto le case di Malfuta apparvero più decrepite e nere.

Le ragazze mentre sugli usci dipanavano le matasse di lino per ordire la tela per le lenzuola nuziali, si misero a sognare un villaggio tutto bianco e nuovo, aperto sulla spianata di Monte Peleio col sole che ci batte al mattino e lo riempie di fulgore accecante; il bianco delle mura, l’azzurro del cielo, l’oro del sole: il canto alle finestre arriva fino al Tratturo.

Gli uomini giovani indovinarono quello che c’era negli occhi svagati delle donne e una notte si riunirono quando comparvero le gallinelle nel cielo sereno illuminato dalla luna fredda e giovane di febbraio.

Uno accennò sulla fisarmonica un vecchio rosario di note in cadenza e tutti dapprima incerti poi via via riscaldandosi trovarono la strofa e la cantarono in coro:

 

E se il padre non ti lascia

Io di notte mi ti porto

E ti sfascierò la porta

Per non farti più penar.

 

Il giorno dopo la nota trasvolò sui campi: le donne rispondevano dai borri goccianti di brina:

portami con te fino all’inferno.

I padri e le madri chini sulla terra sarchiavano con concentrata attenzione le porche venzicanti di grano tenero; la testa non si sollevava che raramente per guardare le nuove bianche che andavano pel cielo sereno, e che facevano ombra sulle case brunastre di Malfuta.

Abbracciate l’una all’altra le case avevano come un aspetto umano, di gente che si guarda con indifferente serenità, tanta è lunga la consuetudine della vicinanza.

Viste così da lontano erano sotto gli occhi dei vecchi come un libro senza segreti; ogni pietra aveva la sua storia, narrava mutamente una sua canzone di gesta, di piccola gesta di morte di sangue e di miseria.

C’erano angoli dove la solitudine s’empiva di voci di risa e di bestemmie, dove i sassi del selciato, ora sdentato come una vecchia bocca, pareva che avessero con una specie di tenacia umana resistito alla terra corrosa, nel profondo, dall’acqua.

Abbandonare per loro quelle vecchie pietre, era la morte; il solo pensarlo dava dentro un senso di vuoto abbondano; tolte le note dei sassi e i fiati umani incrostati nelle pareti, dentro non rimaneva nulla.

Senza radici, vecchie piante si sentivano; inaridite dal basso e pronte a crollare sulla terra.

 

Il villaggio sorse veramente. Accanto alla provinciale spianarono il terreno impiantarono i binari e scavarono le fondamenta.C’era una macchina che masticava la pietra viva vi Putrella con un rumore infernale. Spaccava dei massi di un quintale e ne faceva breccia grossa come noci. Il rumore, quando al crepuscolo taceva ogni altro suono, nella raccolta pace dell’aria si faceva lacerante, sormontava il Peleio e raggiungeva con la sua eco rugginosa Malfuta. Martellava sulle povere teste stanche dei contadini che fumando quietamente sugli usci attendevano che il desinare fosse pronto.

Nell’interno le donne si movevano tra il fumo delle frasche e l’afrore acre dell’olio fritto: i bimbi in ginocchio o seduti sulle scranne avevano i visi avvampati dai riflessi della fiammata.Ogni rintocco della brecciatrice batteva sulle case di Malfuta e le sgretolava: un’inquietudine sorda s’impadroniva di tutti.La sicurezza ferma che prima tutti avevano diminuiva; forse Malfuta poteva veramente crollare.

Tra i vicoli gli sguardi erravano appannati di tristezza.Sulla spianata di Monte Peleio gli operai scavavano le fondamenta seguendo le tracce quadrangolari dei picchetti: poi sorsero dalle fondamenta le lingue di ferro come una piantagione di rugginosi fiori metallici e incominciarono le colate di cemento. Le mura si elevavano come per sortilegio.Quei di Malfuta non volevano vedere il lavoro.I giovani, vigilati dai vecchi taciturni e ostili, sarebbero stati curiosi di guardare le loro case future, ma non potevano andarci.Un giorno a Marietta del Favaro scappò una capra: pareva impazzita.

La rincorse col fiato mozzo e senza volerlo raggiunse il monte, dietro all’animale che trottava allegramente per lo stradone polveroso.Gli operai la scorsero e le lanciarono dei frizzi, in uno strano dialetto gorgogliante; poi un gruppo lasciò il lavoro e rincorse la capra e riuscì ad afferrarla:

-Ora ce la mangiamo, - disse uno guardando Marietta con gli occhi cupidi.

La ragazza strillava: allora uno la pizzicò sulle natiche e lei gli afferrò una mano e vi affondò i denti fino all’osso. L’uomo mugolò per la fitta e la rovesciò di schianto sulle pietre. Gli altri intorno ridevano incitando il ferito. Sopravvenne un sorvegliante bestemmiando: -Vi scaccio tutti come cani.

Marietta si rialzò e tornò verso Malfuta con una mano affondata a tenaglia nel vello dell’animale e non disse nulla.La notte sognò due occhi diabolici confitti nei suoi e udì nel viso quel respiro acre di tabacco e di vino. Il lavoro durò diciotto mesi e il villaggio fu compiuto. Erano forse duecento case tutte bianche con i balconcini verdi e le terrazze grige; la chiesa, la scuola, il lavatoio, le fontane, la casa del podestà. Le case erano disposte in ordine geometrico e guardavano quasi tutte a levante verso Morrone e il Tratturo che piegava a valle del paese e rimontava la ripida costa del Monte Gerfato per perdersi poi nella piana di Puglia.

Le case, di giorno erano battute dal sole che faceva scintillare la pietra bianca; di notte, la luna dava al biancore un che di funebre da cimitero suburbano.Non un lume, non una voce: solo il bianco del lume lunare e la sinistra immobilità delle case.A cielo buio, nelle notti di tempesta la pioggia scrosciava sui muri che non ne assorbivano una goccia: per le strade l’acqua fluiva in rigagnoli netti come tra le vene di una roccia; il vento non era che sibilo, non tremava luce, non batteva un’imposta.Le case si offrivano passivamente alle raffiche senza partecipare al moto dell’atmosfera con la rigida indifferenza dei cadaveri.

Così la videro una notte un gruppo di malfutesi che tornavano da Campobasso, colti dal maltempo e dal buio sotto Pretella. Scorto il villaggio nel buio s’erano raccolti in un gruppo taciturno: tra il bruno dell’ombra l’ammasso bianco delle case emergeva incerto.Ascoltavano la pioggia che sferzava le mura con rumore metallico.Di tanto in tanto il tuono scoppiava improvviso alle loro spalle e il fragore s’arrestava come per incanto in prossimità delle case; pareva rimontasse verso Petrella con improvviso cambiamento di rotta.

Ma poi, d’un tratto, il cielo s’aprì sopra il villaggio con due lingue fosforiche accecanti e illuminò di un bagliore subitaneo le case: le due lingue raggiunta la terra si divisero in cento lingue serpentine che s’unirono nelle vie deserte tra il candore sinistro delle mura e accesero un improvviso gioco di luci e di sibili che diedero una vita infernale, balenante alle case.I malfutesi si segnarono e si strinsero in gruppo più compatto come per difendersi da un misterioso pericolo.Stettero fermi qualche attimo come inchiodati al suolo dal loro terrore, poi ripresero esitanti il cammino.

Il giorno seguente parlarono con voci sommesse del villaggio stregato: dopo qualche mese si narrò che nelle notti buie i diavoli appiattati negli angoli si richiamavano con i fischi che si mutavano in lingue di fuoco.Venuta la nuova estate quasi ogni domenica arrivava gente forestiera e montata su un tavolo in piazza, faceva un discorso per incitare i malfutesi a fare acquisto delle nuove case.

- Il Governo vi dà la casa nuova per pochi soldi e la potete pagare in vent’anni a piccole quote, poche lire al mese; la civiltà, il progresso…, queste vecchie baracche, ci creperete sotto.

Nulla: nessuno si presentava a firmare il contratto: una ripugnanza invincibile prendeva i vecchi di Malfuta: ed erano loro che avevano i soldi e, come duecento anni prima, li tenevano nascosti sotto le materasse o chiusi nello scapolare tra l’immagine di san Rocco e quella di san Paolo contro il morso delle vipere.Ora che il sole batteva rovente sulle case e non c’era un sentore d’acqua sulla terra, Malfuta secca, calcinata faceva tutt’uno con la costa granitica.

Nel giugno, nei primi giorni della mietitura c’era stata contesa tra i giovani e i vecchi; s’erano guardati negli occhi arrossati dal sole rovente con un odio stanco, ma il manico delle falci aveva scricchiolato sotto la stretta delle dita sanguinanti.Poi nessuno più parlò del villaggio nuovo.Erano stati un mese chini sulle messi gialle, poi avevano girato su la paglia e sollevato al cielo vortici di pula e di chicchi e bevuto vino rosso a garganella; le lingue impastate non trovavano che il mozzo grido per incitare le vacche fetide nel giro lento dell’aia.Poi d’agosto, accumulato il grano in sacchi disposti a pila nelle cucine nere, meriggiavano taciturni aspettando la festa di san Rocco.

Venne la festa e si svolse col solito rituale: messe, prediche, processioni, banda, maccheroni di zita, carne di pecora, vino.Tutto solito; ma la notte in luogo degli organetti che sonavano fino all’alba i vecchi avrebbero giurato di udire misteriosi rumori di animali su per la costa: qualcosa d’insolito che li rendeva inquieti.Arrivò l’ultima sera di festa: bisognava riportare san Rocco in processione sul limite nord della frana.

Il santo avanti sorretto da quattro giovani gagliardi; dietro i preti litanianti, dietro ancora il popolo con i ceri e le fiaccole: il sentiero era stretto, la fila perciò interminabile; da lontano un rivolo di lucciole che andava sulla terra in tenebra sotto il cielo stellato; clamore di trombe, grida di evviva che si ripetevano a tratti come un ordine trasmesso ad urli su un mare in tempesta.

Giarrato, in alto ogni tanto mandava in aria una bomba che si apriva nell’ombra con un sordo scoppio e versava sul rivolo di luci una pioggia di grani luccicanti.Poi erano scoppi più alti azzurri e gialli: prima laceranti brevi poi fragorosi per l’eco delle valli rintronate dagli spari.Allora s’elevavano più alte le grida verso il santo che in cima alla colonna mostrava il suo capino di cera con l’aureola gialla tintinnante nel moto ondoso dei portatori.Ad un tratto gli spari cessarono: la terra fu avvolta nel buio punteggiato dalle fiammelle incerte delle candele.

In capo alla colonna ci doveva essere stata una sosta inquieta: e l’inquietudine si trasmise a rivolo dei fedeli e si manifestò con un arresto e con un silenzio improvviso di tutti.Il fianco del monte dirimpetto ebbe un chiarore labile: poi la luce si dilatò a guizzi a scoppi, frugava i botri e le macchie e riappariva più larga e più ferma.Qualcuno ebbe un grido seguito da una imprecazione sorda poi le grida si moltiplicarono e qualcuno, una donna, elevò uno strillo metallico: - Al fuoco!- La parola fu ripetuta, passò sulle teste che via via si volgevano trasmettendosi la notizia.

Malfuta bruciava: in pochi minuti le fiamme spuntarono come dal suolo: il fuoco si sprigionava da punti lontani come se la fiamma fosse trasmessa dai rami di una sorgente sotterranea.D’un tratto fu un correre pazzo giù per il sentiero; nella corsa le fiaccole prendevano vento e la fiamma s’ingrandiva: pareva corressero verso il fuoco come per alimentarlo ancora.

Gridavano: - Aiuto! Spegni! Acqua!- e correvano con le torce in mano.Dopo il primo trambusto il passo si fece più cauto: a mano a mano che i minuti passavano le case scomparivano tra il fiammeggiare sinistro: si sentiva il rovinare delle mura e il crepitare delle travi infiammate.Pareva che tutti gli elementi che componevano le case avessero una strana fretta di essere distrutti.Quei pochi che erano arrivati ai limiti dell’incendio si fermarono e si guardarono in viso: erano un pugno di vecchi forse due dozzine di uomini e donne.

Si volsero indietro e videro che il rivolo di lumi continuava la sua ascesa su per il monte: un vocio confuso e grida altissime superavano ogni tanto il fragore dei crolli.Allora, come se un’idea subitanea le avesse contemporaneamente illuminati, lanciarono le loro torce nel rogo e si misero a correre affannosamente su per l’erta.Raggiunsero la coda della processione e ripresero la lenta marcia degli altri.

Quando arrivarono in cima, la testa della processione aveva raggiunto di già le prime case di Malfuta nuova; le fiamme delle candele la illuminarono blandamente: il bianco si mischiava alle ombre e le case persero la loro rigidità funeraria.San Rocco e gli altri santi percossero la via principale ed entrarono nella chiesa rifulgente di candele: qualcuno aveva preparate le nicchie, qualcuno aveva pensato all’organo e all’incenso.I boati delle canne, insieme con l’odore dell’incenso si sparsero per le vie, dove già erano corsi i ragazzi che vociavano e si rincorrevano nella penombra.Come per incanto alcune case si apersero: il vino trafugato dalle vecchie cantine di Malfuta fu versato nelle fiasche.

Una fisarmonica sgranò le note di una tarantella e Giacomo Brenta prese per mano la vecchia moglie che si schermì ombrosa e sgarbata; ma poi dopo uno strattone del marito riuscì a ritrovare lo scatto giovanile delle gambe.Dopo qualche giro una giovane si staccò dal gruppo degli astanti e colpì secondo l’usanza, per scacciarla, la vecchia con una botta dei fianchi generosi e ballò nella piazza con una furia elastica, che mise il fuoco nelle carni a tutti.E allora tutti si mossero e ballarono incitandosi con le grida, con lo schiocco ritmico delle mani.E bevevano e mangiavano sotto il cielo mite di Agosto.Si calmarono e entrarono nelle case: si udì il dondolio di una culla, il lamento fragile di un lattante, il canto roco di un ubriaco solitario.

Francesco Jovine 

R a c c o n t i ,
casa ed. G. Einaudi ,
finito di stampare il 14 ottobre 1967
dall'Officina Grafica Artigiana Panelli - TORINO

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