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Categoria: FRANCESCO JOVINE

madre-figlio-abbraccio

Incontro col figlio

Arrivò a Termini alle quattro ai primi di febbraio. Il treno si arrestò su una linea secondaria lontana dall’uscita. S’avviò seguendo una fila di gente sul marciapiede di sinistra, ma qualcuno le fece cenno che di là non poteva passare: volse a destra ed entrò tra un gruppo disordinato di operai calcinosi che portavano sulle spalle il sacco con i ferri. Sbucò in via Marsala accanto all’ufficio dei treni popolari.Lì per lì, vedendo la strada quasi deserta, non si raccapezzò sulla direzione; poi gli autobus fermi dei castelli le fecero capire che la piazza della stazione era da quella parte. Fatti forse cento passi tra viandanti radi e distratti che si dirigevano a piedi verso la periferia incontrò la gente più fitta e le automobili che tagliavano i crocicchi come saette.

Capì che doveva allarmarsi per attraversare, ma non le riuscì: passava tra i veicoli col solito passo stanco; più in là dove c’erano i tram rischiò di essere schiacciata da un’auto che aveva bloccato a venti centimetri: il conducente le aveva detto arrabbiatissimo grattando il cambio per rimettersi in moto: - Và a dormire puttana.

Pareva addormentata veramente; ma l’arresto dell’auto le aveva fatto stringere con un movimento subitaneo la borsetta che aveva sotto l’ascella. Sentì alla base della mammella il duro della canna della rivoltella ed ebbe un brivido.

Raggiunto il marciapiede depose la valigia che aveva nella destra e sulla valigia, mise la borsetta: la borsetta cadde e la donna si turò gli orecchi per non udire il botto; ma il colpo non era partito. Si chinò ma ebbe una fitta al braccio destro ed emise un piccolo gemito. La valigia portata a pendaglio le aveva spezzato i nervi. Un ragazzo che le era accanto raccolse l’oggetto e glielo mise in mano. Non ringraziò. Ma il ragazzo aveva l’aria d’infischiarsene, si rimise a battere i piedi calzati con stivali di gomma: aveva un fascio di giornali sotto il braccio, il naso paonazzo e moccioso.

Aveva un freddo cane: si accorse anche lei di avere freddo; tirava una tramontana lenta che radeva il suolo e le saliva sulle gambe fino al grembo frugandole i panni e ghiacciandole la pelle. I tram passavano gremiti con gli sportelli chiusi: s’intravedeva il verminaio dei viaggiatori che oscillavano nello sforzo rugginoso dell’avvio.

La donna guardava sbadatamente i numeri delle linee: 6, 24, 18. In testa le martellava il numero 12. Era il suo tram. Ma non veniva. Continuò ad attendere: quanto tempo era passato? Forse dieci minuti, forse un’ora. L’orologio al polso era fermo. Un colpo di vento improvviso le sollevò le sottane e il cappottino nocciola forse troppo leggero e corto che le si adattava male al corpo dimagrito: si rassettò con un movimento automatico e cercò con gli occhi il ragazzo di prima. S’era allontanato ed era fermo in un angolo, s’era messo le mani nelle tasche senza curarsi di offrire più il giornale.

Arrivò una guardia. Lei disse in un soffio: - Il 12 -. La sua voce le suonò estranea. Erano trenta ore che non parlava. La guardia balzando su un tram in corsa le indicò una strada a destra e disse qualcosa che lei non comprese bene. Poteva aver detto: sei mesi.Deve andare a destra: scendere dal marciapiede è un tuffo in un pozzo. Esita. Arriva un gruppo di uomini in corsa che tentano di aggiungersi al grappolo di coda di una vettura; le danno una spinta in un fianco che la fa traballare; sulla strada entra in un filone di passanti. L’attenzione di quelli che sono fuori protegge lei e una vecchia curva che annaspa tra le gambe. Si sente sicura per qualche istante.

Poi di nuovo sola. A sinistra un 12 passa correndo, ha l’impulso di spiccare la corsa per raggiungerlo. Ma le gambe sono di legno. Segue la linea. Dopo un po’ arriva una vettura semivuota che si ferma dolcemente. Monta e si butta a sedere in un angolo. La vettura percorre delle strade nuove; forse non va più all’Acqua Bulicante. Dovrebbe domandare ma non ne ha voglia, è stanchissima. Chiude gli occhi ma senza sonno. Dall’odore penetrante di pesce fradicio si accorge che è arrivata al grande mercato: che odore! Quando era incinta, tanti anni prima, le dava il vomito. Anche ora un disgiunto violento le monta dallo stomaco vuoto, inghiotte la saliva che le va di traverso e la tosse le scoppia nella gola preceduta da un fischio: perde il fiato, poi ha una batteria di guaiti canini, gli occhi strabuzzati si empiono di lagrime. Fa la corsia traballando; sulla piattaforma la tosse si calma e la bora le gela le lagrime all’angolo degli occhi e li fa più duri.

La strada si apre ed eccola al quartiere nuovo di cubi grigi forati di verde: case in costruzione abbandonate come dopo un incendio. La calcina polverosa che doveva esserci se n’è andata via chissà dove con la tramontana che ha frugato crudelmente il lastrico. Da un vicolo perduto un organetto manda un grappolo di note a singhiozzo che si sgranano vitree nell’aria fredda. A una finestra una camicia è presa nel soffio del vento e si tende disperata per far navigare la casa. All’improvviso sbucano da un uscio due mascherati: l’uno a cavalcioni dell’altro: quello su è vestito da pulcinella tutto bianco: le labbra livide gli tremano per il freddo, ha in mano due coperchi di stagno e li batte a ritmo. Quello sotto ballonzola e pare allegrissimo.

Quando la donna gli passa accanto, grida: - E’ carnevale allegri!

Lei si volta appena; dopo un po’ sente un vociare feroce di ragazzi de li vede correre spaventati e sparire. E’ contenta che la portiera non l’abbia vista: la vetrata è chiusa per il vento: passando accanto al garage ha pensato che il marito è a casa con l’amica. Lei suona, entra e li ammazza tutti e due.Non le riesce d’immaginare il fuoco dello sparo e il calore del sangue: si rappresenta solo i cadaveri già freddi. Per le scale le pare di correre, ma ha le ginocchia pesanti e cammina veramente a stento: ma le viene il fiato corto lo stesso.

Arrivata sul suo pianerottolo le montano delle vampe scure al viso: poi sente che il calore le va ai piedi che si fanno di piombo, il viso si spegne e le occhiaie diventano enormi. Estrae con la destra la pistola dalla borsetta e suona. Lo squillo lacera l’aria in un punto lontano poi ritorna intatto seguito da un altro squillo: il dito le si è inchiodato ligneo sul tasto e il vuoto dell’interno s’empie di echi ilari.Suona ancora; nessuno. Rimane forse mezz’ora diritta con un braccio teso e la rivoltella pendente nell’altro, le pare di essere diventata altissima tanto il suo corpo è leggero: ma quando stacca il dito ridiventa piccola e pesante.

Quanto ripassa, la portiera la scorge dalla vetrata, si precipita fuori, la prende per un braccio e l’attira nell’interno. Nella stanza si trova seduta su una sedia durissima: l’atmosfera è glaciale.La portiera riprende il suo scaldino, lo fa scomparire sotto le gonne e ricaccia le mani grasse e sudice in un manicotto spelacchiato. Poi parla con rabbia: una stizza velenosa le circola negli occhi acquosi e sulla bocca mencia. Non ha il coraggio di tirar fuori le mani ma se l’avesse forse la scuoterebbe con brutalità.

- Fiasco, non c’è nessuno, sono partiti da quindici giorni; voi dimenticate di mandarmi il nuovo indirizzo e io dagli a scrivere a Giulia Cardi Vicolo Soprano Barletta, un Cristo, Barletta, lei parte per Trani! Se avesse avuto la prima lettera li coglievate: porci!

- La mamma, va bene la mamma; in sei mesi una mamma o muore o guarisce; non è guarita e allora è cronica, campa cent’anni. E il marito intanto soffiato: via, hanno venduto tutto, se la godono adesso per colpa vostra.

Parla con un furore montante che le fa tremare leggermente l’adipe rugoso del viso: - Lui è ingrassato maiale fottutissimo e anche lei è ingrassata solo davanti, e voi…

Qui la voce prese un tono lacrimoso pieno di sibili smorzati. La esaminava dal capo alle piante e stentava a trovare le parole per definirla.

- E voi come siete ridotta voi! Dov’è la pugliese ricciolona? Un cencio siete, un cencio; magra come un osso, grinzosa.

- Invecchiano i dispiaceri. Per voi è finita, non vi rialzate più. Io vi voglio bene quanto vi voglio bene, ma la colpa è vostra; sono scappati e nessuno gli ha detto nulla.

Riuscì ad ottenere l’indirizzo del figlio e fu di nuovo sulla strada; era quasi notte: un crepuscolo opaco era caduto sulle case bige.  Il vento taceva, ma l’aria immobile era più fredda di prima. Sulla piazza un gruppo di operai aveva acceso un fuoco con pezzi di casse di abete; avevano le mani tese e guardavano la fiamma senza parlare. S’internò in vicoli sudici di una sporcizia gelata e rassodata dal vento, senza selciato con casine basse a uno o due piani; trovò il numero.Le venne ad aprire una vecchia alla quale mostrò il foglietto sul quale la sua mano tremante aveva scritto il nome della strada e il numero.La vecchia ebbe un moto sgradevole di sorprese nel vederla: aveva indovinato, ma si contenne subito.

La luce fosforica che le era nata agli angoli degli occhi duri si stemperò in un che di vischioso che scese dalle palpebre a intenerire lo sguardo. Le narici scarne palpitavano come le pinne di un pesce. Le uscì subito una voce di pianto incrinata di raucedine ma mansueta e flebile. Pareva chiedesse scusa timidamente, con un gesto vago della mano accennante a un passato irrimediabile che aveva sconvolto tutta la sua vita.Decorosa vita, onesta; guardi i mobili lindi l’orologio a pendolo non un grano di polvere; povera ma onesta. La figlia un fiore, mani di fata, bella. Disegnava l’armonia della sua vita con tutta la persona risecchita accurata: quando parlava della figlia e di quell’uomo che l’aveva portata via, con la mano aveva il gesto di chi vuol cancellare una macchia o riporre nel suo posto un oggetto in disordine. Si capisce, il ragazzo era lì; che doveva fare? Abbandonato dal padre, senza famiglia, se l’era preso lei; buon cuore, il suo cuore era grandissimo, occupava tutto il suo petto striminzito come lo stomaco di una rana.

La Cardi rimane in piedi e ascolta: l’orecchio è acutissimo e le parole le entrano come succhielli nella testa dolente ad una ad una; ne è tutta crivellata ma non può metterle insieme: capisce lo schifo della lingua della donna che macina una saliva attaccaticcia. Riesce a dire: - voglio vederlo.

Certo, certo; vederlo: è giusto – il cuore di una madre – ma è per la strada, a pescarlo. Non si riesce a trattenerlo: irrequieto mai fermo, la sua vecchiaia rattristata da quel duro peso. Le narici fremono di pianto.

La madre ripete: - Voglio vederlo -. Le vien fuori una strana voce legnosa senza una vibrazione; poi la bocca si richiude ad arco con le punte in giù, e le disegna due rughe che le appuntiscono il mento.

La vecchia è inquieta, vorrebbe parlare ma cerca inutilmente un altro tono: ha capito che quello di prima non penetra: le pareti glielo rimanderebbero inutilmente sul viso.Apre una finestra si sporge nel cortile e chiama: salgono le grida di una gazzarra di ragazzi e invadono la stanza: le risa si fermano agli angoli come campanelli. La vecchia richiude e nella stanza rimane sospeso lo sgomento del buio vuoto apparso nel vano. Il ragazzo è accaldato con i capelli in disordine, ha le scarpe polverose e un vestito troppo corto e piccolo che dà l’impressione che mani e piedi gli siano stati attaccati dopo.

Rimane perplesso un attimo poi ha uno scatto e si precipita nelle braccia della madre.La madre si sente come sciogliere; il sangue le refluisce alla superficie con un calore intenso come se la pelle avesse voglia di ridere. Rimangono stretti qualche minuto poi lei lo stacca da sé e lo guarda. La lingua si muove nella bocca fremente, le mani palpano il ragazzo e tentano di stirargli la stoffa troppo corta delle maniche e dei calzoni. Magro lo trova magro, il vestito misero, «non ti vestono più», ti fanno morire di fame.

E smaniosa, frenetica, le sue mani hanno una rapidità incredibile: il ragazzo si sente le sue dita dappertutto: dure, puntute, dolci.

Ridotto così per lui, vigliacco, e lei lei, com’è lei? Bella? Tu la vedevi, tu la vedevi. Il ragazzo ora s’è calmato respira più quieto e forse è diventato un po’ pallido: sogguarda la madre con un sorriso vago tra il pietoso e l’ironico: vorrebbe parlare e sottrarsi un po’ a quelle carezze disordinate. Ma lei ora parla sempre: è un fiume di parole: domande, gemiti, considerazioni rabbiose: ti fanno morire di fame. La magrezza del figlio le risulta quasi ossea sotto la percezione delle dita dure che affondano nei muscoli con una sorta di tenera ferocia.

La vecchia non se ne va, è irrequieta; gli occhi piccoli e la bocca stretta: è evidente che frena a stento l’impulso di separarli: è come se tema un discorso, una domanda che le dà fastidio e che prevede le verrà posta.A un tratto la Cardi si stringe il figlio al petto e gli soffia in un orecchio una domanda che la premeva alla gola prepotente: - Veramente è incinta, lei? Il ragazzo si stacca da sua madre e la guarda sospeso e serio con una gravità adulta che la sgomenta; poi, fa un cenno lento di assenso con la testa.

La vecchia interviene: - Danaro ne manda pochissimo, cosa le racconti? Quello che ha lasciato è già finito: dici bugie al solito.

La Cardi avanza con la faccia gelida e le mascelle serrate verso la vecchia che indietreggia barbugliando. Ma l’impulso violento acceso per un momento cade. La cardi ha guardato il figlio e vedendogli il viso serio e smarrito s’accorge all’improvviso che è mutato. La prende la smania di risentire sulla sua vita le sue braccia stecchite e quell’ansia puerile delle sue carezze. Così com’è ora non lo riconosce: allora tenta d’avvicinarsi al figlio ma la maschera di prima le è rimasta inchiodata sul viso perché il ragazzo protende le mani in segno di difesa, terrorizzato.

La vecchia dice: - Fate paura anche a lui che vi racconta le bugie; tutti pazzi siete! Allora la Cardi muta direzione: la voce della vecchia, le richiama l’impulso di prima e apre la borsetta e vi fruga dentro con la mano tremante; ma la pistola deve essersi impigliata in qualche cosa perché la vecchia ha il tempo di emettere uno strillo, fare un balzo, penetrare nella stanza di fronte a chiudere a chiave.Anche il figlio è ora terrorizzato, esce nel corridoio rapido e infila le scale: la madre dopo un attimo di perplessità angosciosa lo rincorre chiamandolo con nomi dolcissimi. Ma il ragazzo fugge; lei lo segue correndo col fiato mozzo empiendo la notte del suo richiamo singhiozzante: ma il ragazzo fugge tra i vicoli bui, appare e scompare, poi lo perde.

Sente un ultimo “no” acuto che la notte inghiotte. Allora lei incomincia a cercarlo piano, camminando rasente ai muri e svoltando gli angoli di balzo per sorprenderlo.Ma non lo trova. Girando a caso fra le stradine ritorna sulla piazza di prima, ora deserta. Il fuoco è semispento. Gli operai lo hanno abbandonato: i carboni muoiono lentamente nell’aria diaccia. La Cardi si avvicina al fuoco.

Francesco Jovine

Da:

R a c c o n t i,

casa ed. G. Einaudi,

finito di stampare il 14 ottobre 1967

dall'Officina Grafica Artigiana Panelli - TORINO

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