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Categoria: FRANCESCO JOVINE

buio

Ragazzo al buio

Il ragazzo ora cammina lentamente per vicolo in penombra: la sera è imminente e il cielo bigio. L’aria quieta e stupita che precede l’uragano è turbata da qualche buffo di vento basso. Per quella strada i passanti sono rarissimi; le automobili girano al largo: se ne ode ogni tanto il rauco strombettare fuggevole ed attutito. Il ragazzo ha l’impressione, in qualche istante di silenzio più cupo, che tutti siano fuggiti lontano per l’approssimarsi di un pericolo ignoto. Affretta il passo; teme che la pioggia prossima gli bagni i due abiti nuovi che ha sul braccio avvolti nella tela nera. Forse sono già un po’ sciupati. Paolo Merni, l’altro ragazzo della sartoria gli ha messo, mentre usciva, il piede tra le gambe e l’ha fatto cadere.

Ha ancora un ginocchio un po’ dolente. Aveva tentato di rincorrerlo ma quello era già lontano sghignazzando. Faceva quasi sempre così; quasi tutti i giorni uno scherzo a tradimento e faceva ridere tutti. Se protestava, lo guardava con occhi di vetro crudelissimi promettendogli di ucciderlo. Ma qualche volta si sarebbe vendicato: un diretto ad una ganascia, un tonfo e avrebbe riso lui. Sicuro. Una frotta di ragazzi spuntarono da un vicolo a destra vociando come ossessi: rincorrevano un cane che guaiva dolorosamente. Scomparvero. Qualche goccia rada e tiepida chiazzò il selciato polveroso senza rumore. Giacomo si mise a correre. Forse era meglio prendere l’autobus; glie l’aveva raccomandato il principale: - Se piove, prendilo.

- Ricorda però di attendere che l’abbia provati. Se ti dà l’assegno per il saldo ripassa; se no, vai a casa.

A casa a quell’ora la mamma non c’è; è andata a prendere Piero all’asilo; adesso saranno per strada anche loro col timore della pioggia. Quando piove Piero ride e strilla come se fosse contento di bagnarsi. Se stasera il conte gli darà, come al solito, cinque lire, Giacomo comprerà una palla colorato pel fratellino e poi giocherà a buttargliela lontana per farlo correre. Ma di sera no, non è possibile, fa troppo buio a casa loro. La mamma accende una sola lampada fioca. Ma se domattina viene il sole Giacomo porterà Piero al giardinetto: ruzzeranno insieme sull’erba.

Il ragazzo ora cammina assorto dipanando i suoi pensieri; ha rallentato il passo e guarda a terra come per seguire il tenue fulgore delle prime luci. Sbocca in una strada anche più stretta; ma un rumore fervido di voci e di trombe si fa prossimo. Fa ancora qualche passo ed entra nello sfolgorio delle lampade: la gente qui è folta e vivace; i visi illuminati e ridenti. Dai portoni degli alberghi escono, a tratti, ondate di melodie che si perdono tra il rullio festoso delle ruote. Giacomo conosce la strada, vi passa ogni tanto per le commissioni, quasi sempre di sera; e quel fulgore improvviso lo stordisce. Se vede poi scendere dalle scale degli alberghi le donne bianche e rosee inguainate negli abiti rilucenti di seta e d’argento ha nel filo della schiena un tremito come di freddo. Chissà perché, ha l’impressione che a toccarle debbano comunicargli una scarica; non sono come le altre donne. Sono quasi immobili, sorridono solo coi denti, a lungo: odorano stranamente.

Sembrano fatte di enormi foglie di carne sovrapposte: ma dentro, nel profondo, devono avere come i fiori una fonte segreta di profumo, che emana i suoi effluvi a tratti, secondo il ritmo della loro blanda ed esatta andatura. Forse non ridono che così e non piangono mai, e non parlano. Giacomo ne ha fastidio, eppure si ferma a guardarle. Più tardi come le altre volte, ripensandoci, le farà muovere in altra maniera e le respirerà vicine; tanto che, a casa, sentirà l’odore della mamma, diverso, e avrà fretta di sfuggire alle sue braccia. Scantona e le luci e i rumori si attenuano; la penombra lo riavvolge più domestica e dolce.

La via ora è larga e le case distanti tra loro, circondate da giardini di alberi spogli o appena rinverditi dalle foglioline timide di Marzo; le glicini pendule tra le inferriate sono fiorite e odorano. E’ arrivato; sul cancello il portinaio gallonato lo riconosce e gli sorride con una lieve aria di derisione, quella con cui gli adulti guardano i ragazzi:

- Il signor Conte non c’è ma puoi salire lo stesso: se vuoi lascia i vestiti.

- No; devo attendere; il principale mi ha detto di attendere.

- Vuoi la mancia, ho capito; sei furbo, bravo -. Poi chiamò accostandosi alla porta d’ingresso: - Michele! C’è il ragazzo del sarto. Lo faccio salire?

Giacomo montò la prima rampa di scale e trovò sul pianerottolo un cameriere.

- Tornerà presto, vieni. Ha bisogno della marsina per domani; vorrà provarla. Passa di qua; di là non si può andare: la signora riceve, - e strizzò l’occhio al ragazzo. Poi gli disse: - Hai capito?

Giacomo sorrise vagamente. Il cameriere aggiunse con improvviso cipiglio:

- Cosa credi di avere capito, scemo! E non l’andrai mica a rimischiare al conte se no ti torco il collo.

- Ma io non so nulla, - disse Giacomo impallidendo. – Cosa devo sapere?

- Già, niente; vieni! – e seguita a camminare lentamente dondolando il capo con una mano in tasca.

Attraversano alcune stanze buie; il cameriere gira via via gli interruttori per rischiarare il cammino. Giacomo lo segue con passo timido e attento: ha paura d’inciampare nei tappeti, di urtare i tavoli carichi di ninnoli fragili. L’altro si muove con sciolta disinvoltura, fa scattare le chiavette con una mano rapida e non si guarda intorno. Sa in anticipo quali cose emergeranno dall’ombra. Giacomo guarda invece con una curiosità ansiosa le pareti i quadri, le vetrate; avrebbe voglia di soffermarsi per osservare; ma quello seguita con quel suo passo misurato e superbo senza voltarsi mai. Arrivano in un salone. Il cameriere lo attraversa senza accendere la luce. Giacomo si arresta, forse per la delusione provata. Si fermano in una piccola anticamera contigua al salone. Il cameriere indica a Giacomo una seggiola:

- Fermati qui ed attendi. Ci si vede, viene luce dalla strada.

Infatti da una finestra del fondo tra le tende di seta arrivava il chiarore incerto dei fanali sottostanti. Giacomo si mette a sedere. Il cameriere se ne è andato dopo averlo ancora una volta squadrato con la solita ostilità. I suoi occhi a mano a mano si abituano al buio e intravede i mobili della stanza: incerti cumuli di ombre. Una lama di luce che entra dalla finestra gli passa sulla testa e va ad accendere nell’altra stanza un opaco riflesso in uno specchio. Per un po’ Giacomo riposa; gli piace di essersi dovuto fermare e che per ora nessuno lo chiami. Il senso di smarrimento di dianzi se n’è andato; nella pace raccolta in quella stanza non sente più il cuore picchiargli veloce nel petto. Ha solo l’impressione di essere tanto lontano dalla sua casa, e che tornarvi sarà tanto difficile. Intorno vi è un silenzio di luogo deserto.

Giacomo ode il proprio respiro. Anche il vento si è placato. Tende gli orecchi per cercare di percepire qualche rumore: ma non ode nulla. Col fiato sospeso anche il cuore si accelera di nuovo e gli dà un po’ di affanno; gli pare che di là qualcuno scivoli rasente il muro con un passo smorzato e cauto da assassino.Si alza e s’affaccia nell’altra stanza: il suo corpo all’improvviso intercetta il chiarore e nello specchio la luce si spegne; ha un moto di terrore e fa un piccolo grido. Ma nessuno risponde. Muovendosi il chiarore ritorna e rischiara pochissimo la sala che deve essere immensa. Enormi specchi alle pareti: tavoli lucidi di lacca e di oro: lampadari al soffitto e agli angoli tante altre lampade. Il ragazzo indovina più che vedere: pensa che se la stanza fosse illuminata dagli specchi e dai mobili nascerebbero fiumi di luce.

Cerca un fiammifero nella tasca e lo strofina sui calzoni. Lo zolfino frigge bluastro e poi evoca nel breve cerchio di luce un fugace luccichio di smalti e vetri al centro. Ai lati, in fondo, gli oggetti dormono. Non c’è nessuno e Giacomo si rassicura. Accende ancora un fiammifero e alla sua sinistra scorge infisso su un riquadro di legno chiaro l’interruttore della luce e in circolo quattro numeri: l’indicazione degli scatti. Se potesse accendere almeno una lampada! Ma pensa che forse il cameriere che lo ha accompagnato se ne accorgerebbe: che occhi cattivi ha quell’uomo! Sembrano quelli di Paolo Merni.

- Ti torco il collo! – E non gli aveva fatto nulla: lui non faceva nulla a nessuno. Tornò a sedere; dopo un po’ udì la pioggia che picchiava sui vetri e il rumore cupo del vento che s’era levato di nuovo: la luce che veniva dalla strada si faceva sempre più fioca.

E non veniva nessuno: la casa sembrava più deserta che mai: il rumore del temporale faceva il silenzio dell’interno attonito e angoscioso.

- Accendo, - si disse Giacomo, e si mosse rapidamente dal suo angolo: cercò tentando con le dita l’interruttore visto prima. La sua mano ebbe un tremito; gli pareva di non avere la forza di compiere quel piccolo gesto. Ma strinse i denti e girò. S’accesero cento  lampade d’un tratto: pareva la vampata di una esplosione.

Giacomo ne fu come accecato, tanto che si coprì gli occhi ed ebbe un gemito. Ma poi guardò intorno e vide il fulgido prodigio creato dalla luce: ammirò avido, col fiato sospeso. Ma per un attimo ci fu contro i vetri uno scroscio di stille grevi e si udì da lontano l’eco di un tuono; poi, forse a destra, un rumore  di passi. Volle spegnere, ma si accesero altre lampade. Girò con le dita convulse per il timore di essere sorpreso; ma se ne spensero alcune solamente; girò ancora e s’accesero di nuovo, tutte. Fece scattare ancora una, due volte ma senza ottenere il buio. Fu preso allora da una specie di frenesia; continuava a girare rapidamente senza interruzione.

Per qualche istante le luci ballarono nella sala una fulgida ridda. Si rincorrevano pazze: anche i mobili e gli specchi pareva che ballassero. Ma ad un tratto la casa tremò per il fragore improvviso di un tuono, un lampo azzurro rigò la parete e tutto piombò nel buio. Giacomo emise un grido e fuggì all’impazzata; urtò un tavolo, e fu un rotolare di vasi e un tintinnio di vetri spezzati; urtò una seggiola, picchiò con la fronte contro uno stipite; un uscio sbatacchiò secco alle sue spalle.Continuò a correre come inseguito dal vento sibilante tra le imposte e dagli scoppi dei tuoni sempre più prossimi. Urlava roco, ma l’urlo si perdeva nel rumore dell’uragano. Sempre inciampando, rovesciando seggiole, spostando tavoli percorse varie stanze finché intravide un andito chiaro che un lampo gli illuminò all’improvviso. Vi si cacciò a precipizio, si fermò ansimando e poi scivolò per terra vinto dalla stanchezza. Stette qualche istante seduto, accasciato da uno sfinimento di malato.

Il luogo era una stanza da bagno lucida di maioliche candide. Al buio Giacomo ne percepiva appena confusamente il gelido nitore; intorno a lui sempre il ruggito dell’uragano che ora sentiva più fioco e distante.Gli pareva di aver percorso tanta strada attraverso un rovinio di terremoto; ora, attendeva che qualcuno venisse per ucciderlo. La porta per la quale era entrato era rimasta aperta e cigolava tristemente; entravano a tratti fiatate di aria gelida che lo facevano  tremare: forse si era aperta qualche finestra. Si alzò a stento ma le gambe gli si piegavano; non gli era possibile fare un passo. L’idea di dover uscire da quell’angolo per attraversare tutte quelle stanze lo paralizzava. Doveva essere tardi, forse mezzanotte: se ne erano tutti andati e nessuno lo cercava.

Forse anche la mamma laggiù, dopo tante strade buie e deserte, girava per la casa facendo i soliti gesti, senza accorgersi che lui non c’era. Ad un tratto udì a sinistra un breve ansimare e delle voci incomprensibili sibilanti; un gemito soffocato. Poi di nuovo silenzio: quei soffi di aria gelida che percorrevano la casa deserta senza fare rumore. Il ragazzo taceva trattenendo il fiato: pensava che se avesse gridato il suo grido avrebbe risvegliato le cose angosciose di prima. Ora aveva l’impressione che la minaccia che era nell’atmosfera rimanesse sospesa attendendo un suo gesto per riprendere la sua ira. Dopo qualche istante un rumore di passi gli fece fare un balzo. Quando fu fuori dal bagno s’accorse che il corridoio era illuminato da un fiochissimo chiarore intermittente.

Allora camminò leggero appoggiandosi al muro come per nascondersi.Raggiunse come un sonnambulo la scala scarsamente illuminata da una candela che doveva essere in fondo. Poi la candela si spense; ma Giacomo seguitò ad andare al buio con l’impressione di calare lentamente in un pozzo. Raggiunse l’atrio e s’avviò per il giardino. Qui l’accolse una pioggia marzolina quieta ed uguale che brusiva tra gli allori del viale. Guardò intorno: tutto era estatico, fermo. La pioggia aveva ora il ritmo sicuro delle cose che non finiranno mai.

Francesco Jovine 

Da:

R a c c o n t i,

casa ed. G. Einaudi,

finito di stampare il 14 ottobre 1967

dall'Officina Grafica Artigiana Panelli - TORINO

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