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Categoria: FRANCESCO JOVINE

persona-sola Il cicerone per i morti

Quando il mio amico me ne parlò per la prima volta, non potei immaginare l’uomo col quale ora camminavo. Mi aveva detto: - Gli piace di bere, di sera parla sempre lui - Parlava sempre lui ed era ubriaco al punto che mi toccò sorreggerlo per un buon tratto, tanto il suo equilibrio era malcerto.
Arrivati davanti alla vetrina della tipografia, ancora illuminata, si tolse il cappello e disse a furia incespicando un poco: - Qui esce il Cicerone -. Si fermò un istante muto, ma quando video dietro ai vetri un’ombra che si avvinceva ad aprire, mi prese il braccio e mi trascinò in un angolo buio: - E’ meglio andar via, - disse con leggera preoccupazione nella voce.

Riprendemmo a camminare; egli parlava: ­ Sono passati quei tempi quando il ministro Ziccardi mi diceva: «Bravo Giacomino!» e mi prendeva a braccetto -. Si tolse il cappello nominando il ministro; poi continuò a citare in serie onorevoli, grandi ufficiali, commendatori, togliendosi sempre il cappello ad altezza adeguata al grado. La sua divisa, e quella del suo giornale, mi disse, era stata sempre: «Esaltare i vivi ed onorare i morti». – Non ho nemici, io sono senza nemici: sapete perché? Io idealizzo l’uomo e quando è morto lo dipingo come desiderava di essere. Il culto dei defunti nasce da questo desiderio del proprio monumento. Detto bene?

Qui si mise a ridere, lasciò il mio braccio per abbandonarsi più comodamente alla sua ilarità e rischiò di cadere. Io lo trattenni e allora Giacomino per la commozione mi abbracciò e mi diede due baci sonori sulle guance. Io volevo lasciarlo perché incominciava ad annoiarmi quella sequela di parole ed i suoi baci non mi piacevano; feci per salutarlo, ma Giacomino mi pregò di accompagnarlo a casa:
­Vi ho detto che non ci vedo, se avessi i miei occhi di una volta!

Lo presi a braccetto e riprendemmo la strada. Ora lui taceva ed io venivo almanaccando sulle regioni che gli avevano fatto evitare l’incontro con la persona che usciva dalla tipografia: “Debiti, - pensai, - non paga il tipografo”.
Bisogna dire che il suo aspetto trasandato, le sue palpebre gonfie e rosse non battevano come quelle dei pipistrelli alla luce viva, e il suo linguaggio così caotico ed esaltato potevano dare anche ad una persona meno scaltra di me un concetto esatto dell’uomo col quale aveva da fare. Ma in quel tempo io ero scaltrissimo: ingenuo sono diventato dopo per il mio personale piacere.
Del resto Aurelio Petti, mio carissimo amico, nel propormi la relazione non aveva mostrato alcun entusiasmo in senso assoluto: si era reso conto che, dato lo stato di estrema miseria in cui ero caduto e non avendo molto da scegliere, potevo ben diventare l’agente produttore del “Cicerone”.
In questo mi aveva trovato consenziente: Giacomino F.M. mi aveva anche anticipato dieci lire; per cui, anche se avessi voluto, mi sarebbe riuscito difficile, onestamente, sottrarmi all’impegno.

Giacomino aveva promesso ad Aurelio Petti di non bere molto quella sera; si era invece ubriacato; per questo i particolari tecnici del mio lavoro m’erano rimasti piuttosto oscuri: né credetti opportuno di insistere con domande indiscrete che avrebbero svelato la mia avidità di grossi guadagni e la mia sfrenata ambizione. Il tatto era allora una delle mie qualità peculiari.
Me ne ricordai, e dallo stato di distrazione nel quale ero rimasto per qualche minuto, passai a quello di una premurosa vigilanza.
Lo sorressi con maggiore forza e presi a dargli consigli quasi affettuosi nei riguardi dei pericoli della strada.
A via del Gatto ci tenne a farmi capire che ormai poteva fare a meno di me, lasciò il mio braccio e proseguì appoggiandosi al muro.
A un tratto si aprì una finestra al primo piano ed una voce roca di donna lo chiamò per nome con l’aggiunta di un aggettivo che definiva in maniera un po’ brutale un aspetto solo della personalità di Giacomino.
Nel salutarmi e nel darmi convegno per il mattino seguente, ebbe un accenno discreto all’ingiuria patita facendomi comprendere che quella donna rappresentava l’unico inconveniente serio della sua vita.
Al mattino quando mi svegliai vidi che la luce del balconcino che era a destra del mio letto aveva una limpidezza insolita, indizio che nel cielo splendeva il sole e la giornata doveva essere freddissima.

Felici presagi, questi, che m’indussero ad alcune liete meditazioni. Attendevo Giacomino e pensavo che la mia giornata sarebbe stata particolarmente operosa, ragione essenziale per non fare, alzandosi troppo presto, inutile dispendio di forze; mi accadde anzi non volontariamente ma per semplice effetto della mia felice disposizione di spirito, di ricadere in un dolcissimo dormiveglia.Quando Giacomino entrò, mi accorsi della sua presenza perché la porta aperta mandò sul mio viso una sgradevole corrente d’aria fredda.Mi svegliai completamente e dissi al direttore del “Cicerone” di sedersi; trovò a stento l’unica seggiola e si sedette volgendo le spalle al balconcino per via della luce che gli avrebbe ferito gli occhi delicatissimi.
Gli feci osservare che la stanza era poco illuminata e che avevo pensato a questa non rara qualità della mia abitazione dandogli convegno da me (“si capisce, le scale, molte scale”: aveva ancora un po’ di affanno); ma quando gli citai un motto latino adatto, si rese conto che aveva da fare con persona di fine educazione e sorrise con molta cortesia.

Era vestito tutto di nero ed il viso cinereo, la barba grigiastra, le palpebre gonfie e rosse gli davano un carattere di sofferenza spirituale che io trovavo singolarmente adatta al suo genere di lavoro. Il discorso che mi fece fu piuttosto lungo ed intricato, pieno di inutili ripetizioni: era evidente che più che chiarire lo scopo della mia collaborazione teneva a mostrarmi la sua profonda conoscenza dell’anima umana che gli aveva suggerito quella che egli considerava una grande idea.  Si presentava in tal modo nobile e disinteressato ed io riuscii ugualmente a capire quello che dovevo fare massime quando mi mostrò un campionario dei più riusciti numeri della sua pubblicazione.
S’era alzato, aveva messo sul letto il suo scartafaccio e lo veniva sfogliando davanti ai miei occhi; poi finì col sedersi sulla sponda e coll’invitarmi a fare da me.
Mi diede poi molti altri preziosi consigli: le visite nelle case dei defunti dovevo ormai farle io, gli indirizzi li procurava lui ed anche  le informazioni intorno alle capacità finanziarie delle famiglie. Dovevo servirmi scarsamente del campionario dei morti. Anzi a questo proposito mi chiese di cercare tra le altre una copia fuori commercio del giornale senza articoli funebri che aveva in prima pagina uno studio su Max Nordau, in terza una novella di P. Bourget e una poesia di Decio Sabini con un patetico disegno di un balcone in autunno che sbocciava dai ghirigori della maiuscola del primo verso: Sul tuo verone ove intristito un fiore…

Detti una scorsa ai versi e feci comprendere a Giacomino che  avevo perfettamente intuito gli scopi e i limiti del mio compito.
Allora lui soddisfatto aprì un involto che non mi pareva di avergli visto quando era entrato e ne trasse un abito nero a falde: - Dovrete metterlo nelle visite, è più corretto e poi fa una certa impressione.Andato via Giacomino, indossai l’abito con una certa ripugnanza e uscii nella strada.: il freddo m’investì crudelissimo e il vento basso faceva sventolare le falde della giacca.Avevo cinque indirizzi; scelsi il più prossimo, percorsi qualche vicolo a destra e trovai la casa del comm. M.S. Mi ricevette la moglie: la mia aria di fresca baldanza e una parlantina velocissima ma rispettosa e mesta come si conveniva alla circostanza, riuscirono a persuaderla; ma si contentava di una pagina sola e prometteva l’acquisto di cinquecento copie; cercai di dimostrarle che per il casato e i meriti del defunto cinquecento esemplari erano inadeguati; avevamo semplici cavalieri e mille copie. Tutto fu vano.

Mi parlò della tristezza dei tempi che non consentivano superflui onori. Mi ritirai e andai a fare un’altra visita. Qui fui fortunato; ebbi da fare con un uomo, il figlio del defunto; si sa, con gli uomini le cose procedono più rapidamente. Sulle prime rifiutò nettamente e mi pregò di rispettare  il suo dolore:  dovetti ricorrere allora al campionario. L’effetto fu buono: due pagine con tre fotografie mille copie ad una lira.Per quel giorno poteva bastare: la sera mi fu difficile convincere Giacomino a mettere entrambi i necrologi nello stesso numero. Mi disse che la cosa era contraria alla tradizione del giornale; ma io gli feci osservare che vivere era rinnovarsi: il fatto stesso che una forza giovane e fattiva collaborava con lui era un segno  che alla pubblicazione era certamente riservato un grande avvenire.Poi aggiunsi per luminosa intuizione: - Non due, mio caro, ma anche tre, quattro, potremmo unirne in uno stesso numero; quando riuscissimo a trovare un  morto di particolare importanza; gli altri tre si potrebbero ritenere lusingati dalla compagnia.

Qui Giacomino mi abbracciò e mi baciò; segno evidente che mi ammirava.Sua moglie, che si era rifiutata d’invitarmi a cena, era andata a letto; Giacomino per ragioni di nobile solidarietà era rimasto digiuno anche lui. Ma quando udimmo attraverso la porta i segni indiscutibili del profondo sonno della signora, io uscii cautamente e andai a comprare dei viveri e del vino.Mangiammo con molto appetito perché eravamo entrambi di buon umore.
Nei giorni seguenti allestimmo l’edizione ed ebbi campo di conoscere il tipografo che, a parte la sua avidità di denaro, era abile e gioviale.
Per andare a consegnare le copie scegliemmo il venerdì, che di comune accordo ritenemmo giornata particolarmente propizia ai nostri destini individuali.

A casa del defunto commendatore Marco S. ci accolse con molta cortesia e con aria leggermente meno triste, cosa che non sfuggì alla finezza del mio intuito e mi confortò a sperare su una immediata riscossione di quanto ci era dovuto. La vedova prese una copia del giornale e si soffermò ad ammirare la fotografia del marito, fotografia giovanile che dovè suscitarle nell’animo teneri ricordi perché notai che i suoi occhi si velavano di pianto.
Invidiai Giacomino che, per la debolezza della vista, non era in grado di osservare questi malinconici particolari: egli infatti con scarso senso di opportunità non faceva che ripetere, inchinandosi con una mano sul cuore:
-    Abbiamo fatto come meglio abbiamo saputo: il vostro signor marito era grande -. Costretto dal rispettoso inchino a guardare il pavimento, non ebbe campo di accorgersi che la signora, aperto il giornale, e data una scorsa alla seconda pagina, era diventata pallida e aveva detto poi a furia, rabbiosamente:
-    Ma è enorme, questo è fatto apposta -. Giacomino le fissò in viso le sue palpebre di talpa con un inquietudine palese. Debbo confessare che fu lui ad intuire nel diluvio di parole che seguì, le ragioni del furore della donna. Le parole: “Insieme dopo morti: il suo peggiore nemico”, a me che ero passato da uno stato d’animo di tranquilla fiducia alla tempesta del momento, non dicevano nulla; e debbo aggiungere per rispetto della verità che Giacomino con impressionante flemma riuscì ad avere una idea ingegnosa. Propose di tagliare in due il giornale e di separare così i due morti nemici; s’intende, avrebbe ridotto il presso. Ma la donna doveva avere cattivo carattere, perché continuò ad inveire contro di noi e fece accorrere tutti gli altri membri della famiglia, che si resero conto rapidamente dell’offesa arrecata al defunto e coprirono con le loro grida una mia coraggiosa protesta.

Francesco Jovine 

R a c c o n t i ,
casa ed. G. Einaudi ,
finito di stampare il 14 ottobre 1967
dall'Officina Grafica Artigiana Panelli - TORINO

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